venerdì 3 luglio 2020

Dopo il Coronavirus. Il ritorno a noi stessi


Siamo stati tutti su una barca in tempesta, sciolti in un destino comune. È arrivato il momento di ritrovare la singolarità. I nostri morti non smetteranno di parlarci fino a quando il serbatoio di lacrime sospeso sulle nostre teste non verrà squarciato

di Paolo Giordano-corriere.it

Così il virus ci lascia a noi stessi. Almeno per un po'. 
Per molti, me compreso, questo ritorno in sé è più complicato da gestire perfino dell’allerta di marzo e aprile. Ritorno in sé da dove? Da un luogo in cui, seppure chiusi ognuno nella propria casa, eravamo tutti insieme, un luogo dove formavamo una totalità. Metterci in contatto con un destino più largo è l’esito momentaneo di ogni grande catastrofe, ma si è trattato di un evento inaspettato per noi. Pensavamo che esperienze simili ci fossero precluse nel mondo comodo e individuale che abitavamo, che dovessimo cercarne al più dei surrogati nei film e nelle distopie. E invece... Siamo appena stati parte di una delle avventure più condivise che l’umanità abbia vissuto, forse la più condivisa in assoluto. Le guerre mondiali avevano lasciato comunque intatte certe nicchie umane, il Covid-19 no: è arrivato in Groenlandia, nelle isole della Polinesia Francese e ora infuria nello Yemen già al collasso. All’epoca dell’influenza spagnola le persone non avevano i mezzi necessari a percepirne la pervasività e la simultaneità, ora sì: siamo stati nella stessa tempesta sapendolo, e abbiamo ripetuto le stesse frasi nello stesso momento in ogni lingua del pianeta. Il Covid-19 ha infettato ufficialmente sei milioni di persone, ma ne ha riguardate quasi otto miliardi. Una volta tanto parlare di «umanità intera» non è stato un eufemismo.
Sto usando il passato e non dovrei. Non è finita, non qui in Italia e tanto meno in altri Paesi che dovremmo avvertire molto più vicini di così. Ma cerco di essere fedele al sentire comune; quel sentire comune che trascende le mie opinioni e il mio istinto e mi ha fatto dire più frequentemente «noi» di «io» nelle scorse settimane. Settimane in cui neppure i miei sogni erano davvero miei, erano «nostri», irruzioni notturne dell’inconscio collettivo. Settimane in cui sono stato sul punto di piangere ogni sera, alla stessa ora, per una commozione che non aveva nulla di personale, era elettricità statica intrappolata nell’aria, prodotta dalle anime di tutti, vibranti all’unisono sulla stessa nota di preoccupazione e cordoglio. Ma non ho mai pianto, non ci sono riuscito.
Nei giorni uguali di lockdown mi capitava d’intercettare la rete di consigli incrociati sui migliori romanzi da leggere, i migliori film da guardare sulle piattaforme per riempire quel tempo slabbrato. Ma non ho letto né guardato nulla, solo notizie e bollettini e altri bollettini e altre notizie. È stato il periodo più lungo della mia vita trascorso lontano dalla finzione, impantanato piedi e mani nella realtà. Oggi mi accorgo, però, che il problema non era affatto nel contrasto fra realtà e fantasia. Il problema era che i romanzi e i film ci parlano di singoli uomini e singole donne, mentre in quei giorni mi risultava comprensibile solo ciò che riguardava tutti, tutti indistintamente. Il dettaglio delle vite umane mi sfuggiva, come se avessi sugli occhi delle lenti sbagliate. Come se mi trovassi nella corrente di un fiume, trascinato, e non potessi soffermarmi su nessun dettaglio, null’altro che l’acqua e il suo scorrere.
La trasmissione di questo virus, a oggi, resta in larga parte un mistero. Quando ne sapremo di più, potremo finalmente correggere questa miriade di regole cervellotiche, di norme e indici e numeri e date, tutti necessari nel loro complesso, ma ognuno meschino e deprimente a modo suo. Nel frattempo, fra gli studi pubblicati ce n’è uno in particolare che continua a tornarmi alla mente. Riguarda un coro, un coro di Mount Vernon, nello Stato di Washington, che una sera d’inizio marzo si è riunito per le prove come d’abitudine. Erano in 61 e fra di loro c’era un infetto. Sono stati contagiati in 53, due dei quali sono morti, il che ne fa uno dei casi di superdiffusione certificati più eclatanti della storia del Covid-19. Il canto, con la sua emissione d’aria a pieni polmoni, ha probabilmente aumentato la carica virale in circolazione, permettendole di raggiungere tutte le file dei cantanti. Ma io non penso più alla carica virale, né alla percentuale dei contagi, ci pensavo qualche settimana fa, mentre oggi penso al coro, a quella moltitudine di cui non conoscerò mai un nome né una faccia, cerco d’immaginare che cosa stessero cantando insieme e mi sembra, in qualche modo indecifrabile, di essere stato parte di quel canto.
È una strana esperienza quella di sciogliersi nel destino comune. Non priva di un suo macabro conforto. Una parte di noi non vorrebbe più tornare indietro né farsi carico dei propri progetti, dei propri desideri, di tutto l’apparato estenuante di ambizioni che serve a staccare il «me» dal «noi». Mi sono opposto alla metafora della guerra, ma in questo l’esperienza che abbiamo vissuto le assomiglia davvero: perché chi torna dalla guerra torna solo in parte e torna più invecchiato del suo gemello rimasto a casa. E perché chi torna dalla guerra mischia sempre al sollievo una vergognosa, inconfessabile e incomprensibile nostalgia della guerra stessa, dell’appartenere a qualcosa di più grande, in cui sparire. Io non mi sento ancora pronto per tornare. Una mano resta aggrappata a quel sentire comune ogni giorno più flebile, mentre l’altra cerca degli appigli in questa nuova vita normale. L’anelito stesso alla normalità mi sembra osceno. Come scriveva James Hillman, «la capacità di normalizzazione sarà anche un fattore di sopravvivenza per l’uomo..., ma se alla lunga si rivelasse uno dei suoi difetti più insensati? Che differenza c’è infatti tra normalizzazione e negazione, inconscietà dolosa, ignoranza, ottundimento psichico? Il fatto di accettare tutto non porta forse a condonare di tutto?».
Nel disarmo, intanto, mi sto riavvicinando timidamente ai romanzi, ancora con il timore che non sappiano dirmi nulla. D’istinto ne ho cercato uno che avevo già letto, Lincoln nel Bardo di George Saunders. In quel libro sono i morti a parlare, morti che non si sono rassegnati alla propria fine, si trovano in transizione perché hanno ancora qualcosa da dire. Il «bardo», per alcune correnti del buddismo, è proprio questo: uno stato liminare fra la morte e la rinascita successiva. Ebbene, anche i morti di questo speciale e quelli molto più numerosi che rappresentano non hanno ancora smesso di parlare. Non hanno neppure iniziato a dire il vero, come noi non abbiamo neppure iniziato ad ascoltarli. Solo ora, tolti i caschi per la respirazione assistita che li rendevano irriconoscibili, ci mostrano i loro volti. Solo ora, nel dramma collettivo che si è consumato così rapidamente da lasciarci incapaci di tutto se non di contare a centinaia, senza distinguere le unità di cui le centinaia sono fatte; solo ora iniziano a rivendicare ognuno la propria individualità.
Sì, i morti sono ancora qui, tutti quei morti che sono i nostri morti. Cantano in coro, dal bardo, e non smetteranno fino a quando il serbatoio gigantesco di lacrime sospeso sulle nostre teste non verrà squarciato e io, noi, tutti riusciremo finalmente a piangere.


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