Siamo stati tutti su una barca in tempesta, sciolti in un destino comune. È arrivato il momento di ritrovare la singolarità. I nostri morti non smetteranno di parlarci fino a quando il serbatoio di lacrime sospeso sulle nostre teste non verrà squarciato
di Paolo Giordano-corriere.it
Per molti, me compreso, questo
ritorno in sé è più complicato da gestire perfino dell’allerta
di marzo e aprile. Ritorno in sé da dove? Da un luogo in cui,
seppure chiusi ognuno nella propria casa, eravamo tutti insieme, un
luogo dove formavamo una totalità. Metterci in contatto con un
destino più largo è l’esito momentaneo di ogni grande catastrofe,
ma si è trattato di un evento inaspettato per noi. Pensavamo che
esperienze simili ci fossero precluse nel mondo comodo e individuale
che abitavamo, che dovessimo cercarne al più dei surrogati nei film
e nelle distopie. E invece... Siamo appena stati parte di una delle
avventure più condivise che l’umanità abbia vissuto, forse la più
condivisa in assoluto. Le guerre mondiali avevano lasciato comunque
intatte certe nicchie umane, il Covid-19 no: è arrivato in
Groenlandia, nelle isole della Polinesia Francese e ora infuria nello
Yemen già al collasso. All’epoca dell’influenza spagnola le
persone non avevano i mezzi necessari a percepirne la pervasività e
la simultaneità, ora sì: siamo stati nella stessa tempesta
sapendolo, e abbiamo ripetuto le stesse frasi nello stesso momento in
ogni lingua del pianeta. Il Covid-19 ha infettato ufficialmente sei
milioni di persone, ma ne ha riguardate quasi otto miliardi. Una
volta tanto parlare di «umanità intera» non è stato un eufemismo.
Sto usando il passato e non dovrei. Non è finita,
non qui in Italia e tanto meno in altri Paesi che dovremmo avvertire
molto più vicini di così. Ma cerco di essere fedele al sentire
comune; quel sentire comune che trascende le mie opinioni e il mio
istinto e mi ha fatto dire più frequentemente «noi» di «io»
nelle scorse settimane. Settimane in cui neppure i miei sogni erano
davvero miei, erano «nostri», irruzioni notturne dell’inconscio
collettivo. Settimane in cui sono stato sul punto di piangere ogni
sera, alla stessa ora, per una commozione che non aveva nulla di
personale, era elettricità statica intrappolata nell’aria,
prodotta dalle anime di tutti, vibranti all’unisono sulla stessa
nota di preoccupazione e cordoglio. Ma non ho mai pianto, non ci sono
riuscito.
Nei giorni uguali di lockdown mi capitava
d’intercettare la rete di consigli incrociati sui migliori romanzi
da leggere, i migliori film da guardare sulle piattaforme per
riempire quel tempo slabbrato. Ma non ho letto né guardato nulla,
solo notizie e bollettini e altri bollettini e altre notizie. È
stato il periodo più lungo della mia vita trascorso lontano dalla
finzione, impantanato piedi e mani nella realtà. Oggi mi accorgo,
però, che il problema non era affatto nel contrasto fra realtà e
fantasia. Il problema era che i romanzi e i film ci parlano di
singoli uomini e singole donne, mentre in quei giorni mi risultava
comprensibile solo ciò che riguardava tutti, tutti indistintamente.
Il dettaglio delle vite umane mi sfuggiva, come se avessi sugli occhi
delle lenti sbagliate. Come se mi trovassi nella corrente di un
fiume, trascinato, e non potessi soffermarmi su nessun dettaglio,
null’altro che l’acqua e il suo scorrere.
La trasmissione di questo virus, a oggi, resta in
larga parte un mistero. Quando ne sapremo di più, potremo finalmente
correggere questa miriade di regole cervellotiche, di norme e indici
e numeri e date, tutti necessari nel loro complesso, ma ognuno
meschino e deprimente a modo suo. Nel frattempo, fra gli studi
pubblicati ce n’è uno in particolare che continua a tornarmi alla
mente. Riguarda un coro, un coro di Mount Vernon, nello Stato di
Washington, che una sera d’inizio marzo si è riunito per le prove
come d’abitudine. Erano in 61 e fra di loro c’era un infetto.
Sono stati contagiati in 53, due dei quali sono morti, il che ne fa
uno dei casi di superdiffusione certificati più eclatanti della
storia del Covid-19. Il canto, con la sua emissione d’aria a pieni
polmoni, ha probabilmente aumentato la carica virale in circolazione,
permettendole di raggiungere tutte le file dei cantanti. Ma io non
penso più alla carica virale, né alla percentuale dei contagi, ci
pensavo qualche settimana fa, mentre oggi penso al coro, a quella
moltitudine di cui non conoscerò mai un nome né una faccia, cerco
d’immaginare che cosa stessero cantando insieme e mi sembra, in
qualche modo indecifrabile, di essere stato parte di quel canto.
È una strana esperienza quella di sciogliersi nel
destino comune. Non priva di un suo macabro conforto. Una parte di
noi non vorrebbe più tornare indietro né farsi carico dei propri
progetti, dei propri desideri, di tutto l’apparato estenuante di
ambizioni che serve a staccare il «me» dal «noi». Mi sono opposto
alla metafora della guerra, ma in questo l’esperienza che abbiamo
vissuto le assomiglia davvero: perché chi torna dalla guerra torna
solo in parte e torna più invecchiato del suo gemello rimasto a
casa. E perché chi torna dalla guerra mischia sempre al sollievo una
vergognosa, inconfessabile e incomprensibile nostalgia della guerra
stessa, dell’appartenere a qualcosa di più grande, in cui sparire.
Io non mi sento ancora pronto per tornare. Una mano resta aggrappata
a quel sentire comune ogni giorno più flebile, mentre l’altra
cerca degli appigli in questa nuova vita normale. L’anelito stesso
alla normalità mi sembra osceno. Come scriveva James Hillman, «la
capacità di normalizzazione sarà anche un fattore di sopravvivenza
per l’uomo..., ma se alla lunga si rivelasse uno dei suoi difetti
più insensati? Che differenza c’è infatti tra normalizzazione e
negazione, inconscietà dolosa, ignoranza, ottundimento psichico? Il
fatto di accettare tutto non porta forse a condonare di tutto?».
Nel disarmo, intanto, mi sto riavvicinando
timidamente ai romanzi, ancora con il timore che non sappiano dirmi
nulla. D’istinto ne ho cercato uno che avevo già letto, Lincoln
nel Bardo di George Saunders. In quel libro sono i morti a parlare,
morti che non si sono rassegnati alla propria fine, si trovano in
transizione perché hanno ancora qualcosa da dire. Il «bardo», per
alcune correnti del buddismo, è proprio questo: uno stato liminare
fra la morte e la rinascita successiva. Ebbene, anche i morti di
questo speciale e quelli molto più numerosi che rappresentano non
hanno ancora smesso di parlare. Non hanno neppure iniziato a dire il
vero, come noi non abbiamo neppure iniziato ad ascoltarli. Solo ora,
tolti i caschi per la respirazione assistita che li rendevano
irriconoscibili, ci mostrano i loro volti. Solo ora, nel dramma
collettivo che si è consumato così rapidamente da lasciarci
incapaci di tutto se non di contare a centinaia, senza distinguere le
unità di cui le centinaia sono fatte; solo ora iniziano a
rivendicare ognuno la propria individualità.
Sì, i morti sono ancora qui, tutti quei morti che
sono i nostri morti. Cantano in coro, dal bardo, e non smetteranno
fino a quando il serbatoio gigantesco di lacrime sospeso sulle nostre
teste non verrà squarciato e io, noi, tutti riusciremo finalmente a
piangere.
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