Il prof. Umberto Patuzzi era l’insegnante di lingua cimbra nei corsi che
si sono tenuti lo scorso inverno in biblioteca a Rotzo, prima che il
covid-19 bloccasse ogni attività. Era il referente del corso avanzato,
rivolto a chi aveva acquisito una discreta familiarità con la nostra
antica lingua; Lauro Tondello, l’altro insegnante, si occupava invece
del corso base. Assistere alle loro lezioni è un’esperienza che ti
riempie il cuore perché capisci che il cimbro è tutt’altro che morto e
forse per come stanno le cose nemmeno morirà più. Il periodo di massimo
abbandono di questa lingua, in cui veramente ha rischiato di
estinguersi, risale a qualche decennio fa, quando, per assurdo, ancora
si trovavano parecchie persone in grado di comprenderlo e in parte anche
di parlarlo, avendolo acquisito negli anni dell’infanzia. Ma attorno a
loro c’era un vuoto quasi totale perché a nessuno interessava il cimbro
che era visto come un fattore di arretratezza, quasi un’eredità scomoda
di cui liberarsi in fretta per offrirsi al progresso emancipati e
moderni. Non dimentichiamoci che a partire dalla Grande Guerra la lingua
e tutto ciò che ruotava attorno al cimbro era criminalizzato e tale
retaggio è durato a lungo. Solo in anni tutto sommato recenti è rinato
l’interesse, con la decisiva opera di salvataggio curata dall’Istituto
di Cultura Cimbra di Roana, la pubblicazioni di libri e riviste, gli
incontri a tema e una miriade di altre attività, quale ad esempio la
messa di Pasquetta a Mezzaselva; solo successivamente sono stati
proposti i primi corsi per imparare la lingua. E’ cambiata soprattutto
la mentalità della gente, sia di quelli che in montagna ci vivono quanto
di coloro che si approcciano come ospiti: entrambi riconoscono nella
riscoperta delle proprie tradizioni un fattore culturale importantissimo.
(biblioteca civica di Rotzo)
Dissento in parte. Non fu solo a seguito della Grande Guerra che il C7C fu conculcato, bensì questo fenomeno fu intrinseco alle comunità cimbre fin già dal millesettecento, con varia gradazione a seconda dell'esposizione dei territori alla cultura veneta. Leggere in merito quando documentò, fra gli altri, lo stesso Agostino dal Pozzo riguardo a Rotzo che pur è stato uno degli ultimi baluardi dell'antica lingua. L'aspetto interessante è che questa deriva non fu imposta dall'esterno (La Serenissima infatti lasciò sempre ampia libertà in merito e la guerra e il fascismo uccisero un morto), ma scientemente attuata dagli stessi parlanti che considerarono il loro retaggio indegno di essere trasmesso ai figli. Che la mentalità sia cambiata è certo, perché s'apprezza sempre quello che non si ha, ma è anche vero che si chiudono sempre le stalle quando sono scappati i buoi, e da mo'. Lodevole, secondo me, qualche genuino tentativo di approfondimento e recupero; un po' meno tiroleggiare le tradizioni locali a beneficio dei zaleti cresciuti con Sissi, Heidi e Tolkien.
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