domenica 5 luglio 2020

Lingua cimbra

Il prof. Umberto Patuzzi era l’insegnante di lingua cimbra nei corsi che si sono tenuti lo scorso inverno in biblioteca a Rotzo, prima che il covid-19 bloccasse ogni attività. Era il referente del corso avanzato, rivolto a chi aveva acquisito una discreta familiarità con la nostra antica lingua; Lauro Tondello, l’altro insegnante, si occupava invece del corso base. Assistere alle loro lezioni è un’esperienza che ti riempie il cuore perché capisci che il cimbro è tutt’altro che morto e forse per come stanno le cose nemmeno morirà più. Il periodo di massimo abbandono di questa lingua, in cui veramente ha rischiato di estinguersi, risale a qualche decennio fa, quando, per assurdo, ancora si trovavano parecchie persone in grado di comprenderlo e in parte anche di parlarlo, avendolo acquisito negli anni dell’infanzia. Ma attorno a loro c’era un vuoto quasi totale perché a nessuno interessava il cimbro che era visto come un fattore di arretratezza, quasi un’eredità scomoda di cui liberarsi in fretta per offrirsi al progresso emancipati e moderni. Non dimentichiamoci che a partire dalla Grande Guerra la lingua e tutto ciò che ruotava attorno al cimbro era criminalizzato e tale retaggio è durato a lungo. Solo in anni tutto sommato recenti è rinato l’interesse, con la decisiva opera di salvataggio curata dall’Istituto di Cultura Cimbra di Roana, la pubblicazioni di libri e riviste, gli incontri a tema e una miriade di altre attività, quale ad esempio la messa di Pasquetta a Mezzaselva; solo successivamente sono stati proposti i primi corsi per imparare la lingua. E’ cambiata soprattutto la mentalità della gente, sia di quelli che in montagna ci vivono quanto di coloro che si approcciano come ospiti: entrambi riconoscono nella riscoperta delle proprie tradizioni un fattore culturale importantissimo.
(biblioteca civica di Rotzo)

1 commento:

  1. Dissento in parte. Non fu solo a seguito della Grande Guerra che il C7C fu conculcato, bensì questo fenomeno fu intrinseco alle comunità cimbre fin già dal millesettecento, con varia gradazione a seconda dell'esposizione dei territori alla cultura veneta. Leggere in merito quando documentò, fra gli altri, lo stesso Agostino dal Pozzo riguardo a Rotzo che pur è stato uno degli ultimi baluardi dell'antica lingua. L'aspetto interessante è che questa deriva non fu imposta dall'esterno (La Serenissima infatti lasciò sempre ampia libertà in merito e la guerra e il fascismo uccisero un morto), ma scientemente attuata dagli stessi parlanti che considerarono il loro retaggio indegno di essere trasmesso ai figli. Che la mentalità sia cambiata è certo, perché s'apprezza sempre quello che non si ha, ma è anche vero che si chiudono sempre le stalle quando sono scappati i buoi, e da mo'. Lodevole, secondo me, qualche genuino tentativo di approfondimento e recupero; un po' meno tiroleggiare le tradizioni locali a beneficio dei zaleti cresciuti con Sissi, Heidi e Tolkien.

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