venerdì 5 ottobre 2018

Il vuoto nella testa



A proposito della neonata ferrata, capita di sentir dire: “Mi a no podarìa mìa farla, a go massa paura!”. La paura delle altezze, o Acrofobia, è una vertigine piuttosto diffusa e può esplodere incontrollata in occasioni scatenanti. È una fobìa salvifica, in quanto previene di mettersi in pericolo, così come lo sono in genere tutte le paure, quando non diventano ossessive. Come un Giano bifronte essa ha però due facce contrapposte: se da un lato ti tutela, dall’altro ti inibisce. A volte arriva a condizionarti pesantemente.
Io ho sempre avuto paura del vuoto, ma anche una potente attitudine a mettermi in gioco, a provare. Perciò fin da piccolo mia madre mi aveva catalogato come “spericolato”. In realtà io ero pieno di paure e complessi, ma era la mia indole irrequieta e curiosa a cacciarmi spesso in situazioni critiche. 
I primi cimenti con salite e correlate paure furono con gli Slìsseghi, i contrafforti in cemento lisciato posti sotto all’Arco dei Cimbri, nel sottochiesa. Poi, via via, con il muro della corte delle bocce del Tones (da dove sono pure caduto), il dirupo del Canpeto, le Joe, quindi le dighe della Val del Chestéle e infine la Scafa dele Anguane. Cose che viste ora fanno ridere i polli, ma la paura è irrazionale e assolutamente personale, inutile dire!

La mia bestia nera erano però le Grape. Si trovavano sulla diga a monte del ponte delle Sléche, giù nell’alveo della Torra a ridosso dell’acquedotto edificato dopo l’ultima guerra e alla cui costruzione aveva lavorato anche mio padre. Erano una decina di clàmare di ferro inserite nella parete della briglia e che permettevano si salirla superando un salto di neanche otto metri. Si raggiungevano dalla strada delle Sléche attraverso un breve e incerto sentiero incavato sul costone della valle. Lì vissi attimi di autentico terrore che ricordo nitidamente ancor oggi. Invidiavo i miei amici che vi salivano con fare audace e baldanzoso cojonandomi per la mia lentezza e circospezione. Io dovevo farcela e stringevo i denti avvinghiandomi ai ferri come un pitone con la preda, con i piedi che tremavano incontrollabili a frequenza radio. Il problema era che la penultima grapa era pure malferma e ciò rendeva il mio impegno ancora più improbo. Trepidavo, dunque, ogni qual volta uno lanciava l’idea di andare a fare le Grape, ma non mi sono mai tirato indietro.
Il fatto è che ho sempre avuto una grande passione per la montagna e pertanto dovevo venire a capo in qualche modo questi miei limiti. In seguito infatti mi son messo d'impegno. Ho fatto gran parte delle ferrate del Nord-Est, quasi tutti i suoi tremila, parecchi quattromila delle Alpi Occidentali, oltre a ghiacciai, vaj e vie varie; anche se il mio ambiente d'elezione non era la roccia, bensì il ghiaccio e la neve. Per mia madre rimanevo costantemente sotto osservazione. Aveva catalogato i miei amici in “spericolati” e “tranquilli” e quando annunciavo qualche escursione aggiungevo che "forse" sarebbe venuto anche qualche "tranquillo", così da non metterla troppo in ansia. Probabilmente intuiva il bonario raggiro, ma intanto il gioco reggeva; almeno così pensavo. In scantinato avevo allestito la zona montagna. Gli sci: da fondo, da discesa e da sci-alpinismo, con i loro accessori più ingombranti, erano necessariamente in bella mostra sulle rastrelliere. Contavo sul fatto che mia madre non cogliesse la differenza di quegli strani attacchi e l’uso delle varie tavole. Sul fondo non aveva infatti niente da ridire, sulla discesa era già più vigile, ma sul resto era meglio sorvolare. Con mio padre invece non c’era problema; lui s’arrampicava come un furetto sulle impalcature e non aveva il sacro terrore del farsi male che aveva lei e nemmeno l’atavica apprensione di tutte le madri. Lui piuttosto giudicava insulso far tanta fatica per recarsi in posti senza un'utilità pratica.
Per il resto c’era un armadio stipato d’ogni altra cosa. Zaini, scarponi, vestiario, ramponi, moschettoni, rinvii, cordami, piccozze, chiodi, imbraghi, sonde, Arva, ecc. L'armamentario più tecnico era prudentemente camuffato. L'attrezzatura buona costava un'eresia allora e noi eravamo squattrinati e abituati ad arrabattatarci alla buona, con roba usata, riciclata o fatta a mano. Come primo imbrago ne usavo infatti uno da paracadutismo riadattato, pesante e complicato da un sacco di fibbie d'acciaio, che s'allentavano sempre durante la progressione causa le fettucce setate. Perciò non avevo ancora una corda intera mia e dovevo andare per carità dai compagni. Anche perché portarne a casa una avrebbe significato la rottura dei sottili equilibri diplomatici e la dichiarazione di guerra. 
Finché dovetti rompere gli indugi comprarne una. 60 metri di Edelried da 11, gialla con screziature nere, una meraviglia! La bambola, accuratamente avvolta e stivata nel vecchio zaino militare di mio padre, finì nell’angolo più remoto del mio armadio. Nel frattempo vissi la stagione alpinisticamente più feconda arrivando ai miei limiti estremi in più d’una occasione. Fu però una sofferta calata dal bastione della Fradusta su rocce fradice che raggiunse il livello di guardia. Tornai a casa a ore e straore stratolto e sbombo. L’indomani, ancor tutto dolorante, dovetti stendere l’attrezzatura ad asciugare, inclusa la mia bella corda. Non subito, ma di lì a poche settimane quella sgargiante fune misteriosamente sparì. Invano chiesi agli amici ai quali potevo averla magari prestata. Niente, scomparsa! Un sospetto in verità ce l’avevo, ma so che nemmeno oggi, a novant’anni suonati, mia madre confesserebbe il misfatto.
Tornando alla paura delle altezze, posso dire d’avercela ancora. Rimane la mia silente compagna rannicchiata nel fondo dello zaino e so che non devo stuzzicarla oltre il lecito. L’esperienza, la tecnica e la determinazione mi hanno quasi sempre consentito di tenerla a bada anche in situazioni estreme dove mai avrei pensato di farcela, ma non bisogna dimenticare il monito del vecchio Totò: Il coraggio ce l'ho, è la paura che mi frega.
Gianni Spagnolo
1/10/2018

8 commenti:

  1. Guarda che le grappe ci sono ancora,probabile che da parecchio tempo nessuno ci sia piu' salito.A quei tempi erano sicuramente una bella prova da superare.

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  2. Sa te smaròno... te te cati solo co la legítima... ;-)))

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  3. Reinhold Messner racconta che talvolta quando saliva una montagna in condizioni estreme le sue gambe non andavano avanti ma indietro. Lui obbediva alle sue gambe anche se il coraggio diceva: vai avanti. È per questo che è ancora vivo.
    Paura, dicono gli esperti, ha come origine la radice greca "pat" percuotere e figurativamente atterrire, incutere timore. Inoltre c'è "panico", una forma di paura, la radice di cui deriva invece dal dio Pan. Quando nacque era talmente brutto che sua madre, la ninfa Driope scappò. Ma Ermete lo coprì con la pelle di coniglio quando lo mostrò agli altri dei e così piacque a tutti e "pan" in greco vuol dire tutto.

    Il testo di Gianni (complimenti) ci porta indietro nel tempo dell'antica terminologia cimbra nell'esempio di "clamara". Ecco da dove deriva:
    khlàmmara f (Sette Comuni), khlàmmarn (plurale)
    khlampar (Luserna)
    ital. graffa, grappa
    ted. Klammer
    ted. antico. klamara
    Probabilmente di origine gotica (eh sì, anche gli Ostrogoti son passati di là) di radice "klam" che significa pressare, comprimere (H. Resch)
    esempio: de höltzar saint gahaltet mittanandar métten khlàmmarn ital. i legni erano tenuti uniti da graffe.

    E per quanto riguarda "slissegar" - "la mònega" di Galdino Pendin comincia così:

    Co gera bocia pìcolo,
    pena finia la guera,
    d'inverno giasso o brosema
    querzea tre dea la tera.

    Ma pur co l'aria rigida
    che ne gelava i ossi
    naltri ogni dì curivimo
    a slissegar sui fossi

    co un vecio par de sgàlmare
    co le so broche in riga:
    nissun badava ai diavoli,
    boanse o la fadiga.
    ....

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    1. Grazie Enrico. Mi sa che qui, più che alle vertigini, devo stare attento alle orecchie ;-).
      Mio padre chiamava indifferentemente "clàmare o clampe" i morsetti ad U usati per fissare due sponde.

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    2. Ma visto che in ballo qui ci sono anche le "bronse" ho pensato che quelli che non la conoscono, vorrebbero vedere il resto della "mònega" di Galdino Pendin. Eccola:

      E dopo un dì de brividi
      se ritornava al gnaro
      scaldarse le man gelide
      intorno al fogolaro.

      E là na soca de àrase
      se consumava lenta
      a cusinar luganeghe
      e brustular polenta.

      Dopo dea sena prodiga
      e de un filò dormion
      sempre vegnea la recita
      de requie e orassion;

      e po' de corsa in càmara
      che gera note fonda:
      su par le scale ripide
      se rapegava de onda.

      Ma fra le querte ruvide
      de un leto taconà
      stava na vecia mònega
      che la tegnéa scaldà

      co na fogara rùzene
      colma de bronse vive
      che mescolarle un atimo
      mandava le falive.

      Soto i nissoli tiepidi
      anca le me boanse
      catava refrigerio
      te le me frede stanse.

      Gratava un poco el cànevo
      sgrensando sui scartossi,
      ma el caldo de la mònega
      meteva in sesto i ossi;

      e se partìa coi angeli
      sognando un mondo de oro
      fin che le forse languide
      catava el so ristoro.

      Ormai me par dei sècoli
      ca gera mi putelo,
      ma pur chel tempo rìgido
      desso me pare belo;

      e ancò coi reumi e coliche
      me sola compagnia,
      dei tempi de la monega
      go tanta nostalgia.

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  4. Grande Koscri, bella storia, penso che le grape siano state un incubo e la prova di forza per molti delle nostre generazioni, in particolar modo quando si arrivava in prossimità della penultima!!! Fa el brao

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    1. Preparati, che partiamo dalle Grape per poi fare Scafa, ponte e Nore. In notturna!

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