A proposito della neonata
ferrata, capita di sentir dire: “Mi a no
podarìa mìa farla, a go massa paura!”. La paura delle altezze, o Acrofobia, è
una vertigine piuttosto diffusa e può esplodere incontrollata in occasioni scatenanti. È una fobìa salvifica, in quanto previene di mettersi
in pericolo, così come lo sono in genere tutte le paure, quando non diventano
ossessive. Come un Giano bifronte essa ha però due facce contrapposte: se da un
lato ti tutela, dall’altro ti inibisce. A volte arriva a condizionarti pesantemente.
Io ho sempre avuto paura del vuoto, ma anche una potente attitudine a mettermi in gioco, a
provare. Perciò fin da piccolo mia madre mi aveva catalogato come “spericolato”. In realtà io ero pieno di
paure e complessi, ma era la mia indole irrequieta e curiosa a cacciarmi spesso
in situazioni critiche.
I primi cimenti con salite
e correlate paure furono con gli Slìsseghi,
i contrafforti in cemento lisciato posti sotto all’Arco dei Cimbri, nel sottochiesa. Poi, via
via, con il muro della corte delle bocce del Tones (da dove sono pure caduto), il dirupo del Canpeto, le Joe, quindi le
dighe della Val del Chestéle e infine la Scafa dele Anguane. Cose che viste ora fanno ridere i polli, ma la paura è
irrazionale e assolutamente personale, inutile dire!
La mia bestia nera erano però le Grape. Si trovavano sulla diga a
monte del ponte delle Sléche, giù
nell’alveo della Torra a ridosso dell’acquedotto edificato dopo l’ultima guerra
e alla cui costruzione aveva lavorato anche mio padre. Erano una decina di clàmare di ferro inserite nella parete
della briglia e che permettevano si salirla superando un salto di neanche otto metri. Si raggiungevano dalla strada delle Sléche attraverso un breve e incerto sentiero incavato sul
costone della valle. Lì vissi attimi di autentico terrore che ricordo nitidamente
ancor oggi. Invidiavo i miei amici che vi salivano con fare audace e baldanzoso
cojonandomi per la mia lentezza e circospezione. Io
dovevo farcela e stringevo i denti avvinghiandomi ai ferri come un pitone con
la preda, con i piedi che tremavano incontrollabili a frequenza radio. Il problema era che la
penultima grapa era pure malferma e
ciò rendeva il mio impegno ancora più improbo. Trepidavo, dunque, ogni qual
volta uno lanciava l’idea di andare a fare le Grape, ma non mi sono mai tirato indietro.
Il fatto è che ho sempre
avuto una grande passione per la montagna e pertanto dovevo venire a capo in
qualche modo questi miei limiti. In seguito infatti mi son messo d'impegno. Ho fatto gran parte delle ferrate del
Nord-Est, quasi tutti i suoi tremila, parecchi quattromila delle Alpi
Occidentali, oltre a ghiacciai, vaj e vie varie; anche se il mio ambiente d'elezione non era la roccia, bensì il ghiaccio e la neve. Per mia madre
rimanevo costantemente sotto osservazione. Aveva catalogato i miei amici in
“spericolati” e “tranquilli” e quando annunciavo qualche
escursione aggiungevo che "forse" sarebbe venuto anche qualche "tranquillo", così da non metterla troppo in
ansia. Probabilmente intuiva il bonario raggiro, ma intanto il
gioco reggeva; almeno così pensavo. In scantinato avevo allestito la zona montagna. Gli sci: da
fondo, da discesa e da sci-alpinismo, con i loro accessori più ingombranti, erano
necessariamente in bella mostra sulle rastrelliere. Contavo sul fatto che mia madre non cogliesse la
differenza di quegli strani attacchi e l’uso delle varie tavole. Sul fondo non
aveva infatti niente da ridire, sulla discesa era già più vigile, ma sul resto
era meglio sorvolare. Con mio padre invece non c’era problema; lui
s’arrampicava come un furetto sulle impalcature e non aveva il sacro terrore
del farsi male che aveva lei e nemmeno l’atavica apprensione di tutte le madri. Lui piuttosto giudicava insulso far tanta fatica per recarsi in posti senza un'utilità pratica.
Per il resto c’era un
armadio stipato d’ogni altra cosa. Zaini, scarponi, vestiario, ramponi, moschettoni, rinvii, cordami, piccozze, chiodi, imbraghi, sonde, Arva, ecc. L'armamentario più tecnico era prudentemente camuffato. L'attrezzatura buona costava un'eresia allora e noi eravamo squattrinati e abituati ad arrabattatarci alla buona, con roba usata, riciclata o fatta a mano. Come primo imbrago ne usavo infatti uno da paracadutismo riadattato, pesante e complicato da un sacco di fibbie d'acciaio, che s'allentavano sempre durante la progressione causa le fettucce setate. Perciò non avevo ancora una corda intera mia e dovevo andare per carità dai compagni. Anche perché portarne a casa una avrebbe significato la rottura dei sottili equilibri diplomatici e la dichiarazione di guerra.
Finché dovetti rompere gli indugi comprarne una. 60 metri di Edelried da 11, gialla con screziature nere, una meraviglia! La bambola, accuratamente avvolta e stivata nel vecchio zaino militare di mio padre, finì nell’angolo più remoto del mio armadio. Nel frattempo vissi la stagione alpinisticamente più feconda arrivando ai miei limiti estremi in più d’una occasione. Fu però una sofferta calata dal bastione della Fradusta su rocce fradice che raggiunse il livello di guardia. Tornai a casa a ore e straore stratolto e sbombo. L’indomani, ancor tutto dolorante, dovetti stendere l’attrezzatura ad asciugare, inclusa la mia bella corda. Non subito, ma di lì a poche settimane quella sgargiante fune misteriosamente sparì. Invano chiesi agli amici ai quali potevo averla magari prestata. Niente, scomparsa! Un sospetto in verità ce l’avevo, ma so che nemmeno oggi, a novant’anni suonati, mia madre confesserebbe il misfatto.
Finché dovetti rompere gli indugi comprarne una. 60 metri di Edelried da 11, gialla con screziature nere, una meraviglia! La bambola, accuratamente avvolta e stivata nel vecchio zaino militare di mio padre, finì nell’angolo più remoto del mio armadio. Nel frattempo vissi la stagione alpinisticamente più feconda arrivando ai miei limiti estremi in più d’una occasione. Fu però una sofferta calata dal bastione della Fradusta su rocce fradice che raggiunse il livello di guardia. Tornai a casa a ore e straore stratolto e sbombo. L’indomani, ancor tutto dolorante, dovetti stendere l’attrezzatura ad asciugare, inclusa la mia bella corda. Non subito, ma di lì a poche settimane quella sgargiante fune misteriosamente sparì. Invano chiesi agli amici ai quali potevo averla magari prestata. Niente, scomparsa! Un sospetto in verità ce l’avevo, ma so che nemmeno oggi, a novant’anni suonati, mia madre confesserebbe il misfatto.
Tornando alla
paura delle altezze, posso dire d’avercela ancora. Rimane la mia silente compagna rannicchiata nel fondo dello zaino e so che non devo stuzzicarla oltre il lecito. L’esperienza,
la tecnica e la determinazione mi hanno quasi sempre
consentito di tenerla a bada anche in situazioni estreme dove mai avrei pensato
di farcela, ma non bisogna dimenticare il monito del vecchio Totò: Il coraggio ce l'ho, è la paura che mi frega.
Gianni
Spagnolo
1/10/2018
Guarda che le grappe ci sono ancora,probabile che da parecchio tempo nessuno ci sia piu' salito.A quei tempi erano sicuramente una bella prova da superare.
RispondiEliminaSa te smaròno... te te cati solo co la legítima... ;-)))
RispondiEliminaReinhold Messner racconta che talvolta quando saliva una montagna in condizioni estreme le sue gambe non andavano avanti ma indietro. Lui obbediva alle sue gambe anche se il coraggio diceva: vai avanti. È per questo che è ancora vivo.
RispondiEliminaPaura, dicono gli esperti, ha come origine la radice greca "pat" percuotere e figurativamente atterrire, incutere timore. Inoltre c'è "panico", una forma di paura, la radice di cui deriva invece dal dio Pan. Quando nacque era talmente brutto che sua madre, la ninfa Driope scappò. Ma Ermete lo coprì con la pelle di coniglio quando lo mostrò agli altri dei e così piacque a tutti e "pan" in greco vuol dire tutto.
Il testo di Gianni (complimenti) ci porta indietro nel tempo dell'antica terminologia cimbra nell'esempio di "clamara". Ecco da dove deriva:
khlàmmara f (Sette Comuni), khlàmmarn (plurale)
khlampar (Luserna)
ital. graffa, grappa
ted. Klammer
ted. antico. klamara
Probabilmente di origine gotica (eh sì, anche gli Ostrogoti son passati di là) di radice "klam" che significa pressare, comprimere (H. Resch)
esempio: de höltzar saint gahaltet mittanandar métten khlàmmarn ital. i legni erano tenuti uniti da graffe.
E per quanto riguarda "slissegar" - "la mònega" di Galdino Pendin comincia così:
Co gera bocia pìcolo,
pena finia la guera,
d'inverno giasso o brosema
querzea tre dea la tera.
Ma pur co l'aria rigida
che ne gelava i ossi
naltri ogni dì curivimo
a slissegar sui fossi
co un vecio par de sgàlmare
co le so broche in riga:
nissun badava ai diavoli,
boanse o la fadiga.
....
Grazie Enrico. Mi sa che qui, più che alle vertigini, devo stare attento alle orecchie ;-).
EliminaMio padre chiamava indifferentemente "clàmare o clampe" i morsetti ad U usati per fissare due sponde.
Ma visto che in ballo qui ci sono anche le "bronse" ho pensato che quelli che non la conoscono, vorrebbero vedere il resto della "mònega" di Galdino Pendin. Eccola:
EliminaE dopo un dì de brividi
se ritornava al gnaro
scaldarse le man gelide
intorno al fogolaro.
E là na soca de àrase
se consumava lenta
a cusinar luganeghe
e brustular polenta.
Dopo dea sena prodiga
e de un filò dormion
sempre vegnea la recita
de requie e orassion;
e po' de corsa in càmara
che gera note fonda:
su par le scale ripide
se rapegava de onda.
Ma fra le querte ruvide
de un leto taconà
stava na vecia mònega
che la tegnéa scaldà
co na fogara rùzene
colma de bronse vive
che mescolarle un atimo
mandava le falive.
Soto i nissoli tiepidi
anca le me boanse
catava refrigerio
te le me frede stanse.
Gratava un poco el cànevo
sgrensando sui scartossi,
ma el caldo de la mònega
meteva in sesto i ossi;
e se partìa coi angeli
sognando un mondo de oro
fin che le forse languide
catava el so ristoro.
Ormai me par dei sècoli
ca gera mi putelo,
ma pur chel tempo rìgido
desso me pare belo;
e ancò coi reumi e coliche
me sola compagnia,
dei tempi de la monega
go tanta nostalgia.
Grande Koscri, bella storia, penso che le grape siano state un incubo e la prova di forza per molti delle nostre generazioni, in particolar modo quando si arrivava in prossimità della penultima!!! Fa el brao
RispondiEliminaPreparati, che partiamo dalle Grape per poi fare Scafa, ponte e Nore. In notturna!
Elimina..sempre pronti...
Elimina