Il
cantiere pensionistico in Italia non si ferma mai, ma così non
funziona.
Per
la settima volta in 26 anni si rimette mano, in questi giorni, al
cantiere delle pensioni italiane.
Sarà presumibilmente introdotto un
ulteriore canale di pensionamento anticipato, quota 100. E' bene
pensarci già oggi per evitare emergenze domani: il nostro sistema
pensionistico, farà fatica ad essere sostenibile.
Chi pensava che
con la durissima legge Fornero (che di fatto ha portato un forte
innalzamento dell'età pensionabile, viaggiando ormai verso i 70 anni
per chi è nato negli anni 80) si fosse chiusa la questione, non ha
tenuto conto di tre importanti problemi: la bassa platea dei
lavoratori che versano i contributi (22 milioni), il numero attuale
dei pensionati (16 milioni con 23 milioni di prestazioni, in quanto
spesso una persona riceve più di un trattamento), i rendimenti
futuri, molto contenuti, delle pensioni per i più giovani in seguito
alla riforma Dini del 1995.
La riforma Fornero ha, in gran
parte, stabilizzato la spesa previdenziale, ma (sarebbe stato
troppo...) non l'intero sistema di interventi che gravano
sull'Inps.
Oggi vige un sistema pensionistico per cui, lavoratori che al momento di entrata in vigore della Dini avevano 18 anni di contribuzione, hanno una pensione di tipo retributivo, calcolata su due quote, ma nei fatti sulla media retributiva degli ultimi 10 anni di salario.
Chi è entrato nel mondo del lavoro nel 1996, andrà in pensione sulla base esclusiva dei contributi versati, aumentati di un coefficiente (il cosidetto montante) collegato all'età del pensionamento: l'entità del trattamento, in presenza di carriere lavorative abbastanza continuative, è mediamente del 35% più basso degli ultimi stipendi percepiti. Questo sempre nell'ottica di una stabilità del rapporto di lavoro e di una remunerazione sostanzialmente costante.
Oggi vige un sistema pensionistico per cui, lavoratori che al momento di entrata in vigore della Dini avevano 18 anni di contribuzione, hanno una pensione di tipo retributivo, calcolata su due quote, ma nei fatti sulla media retributiva degli ultimi 10 anni di salario.
Chi è entrato nel mondo del lavoro nel 1996, andrà in pensione sulla base esclusiva dei contributi versati, aumentati di un coefficiente (il cosidetto montante) collegato all'età del pensionamento: l'entità del trattamento, in presenza di carriere lavorative abbastanza continuative, è mediamente del 35% più basso degli ultimi stipendi percepiti. Questo sempre nell'ottica di una stabilità del rapporto di lavoro e di una remunerazione sostanzialmente costante.
Un giovane, entrato nel 1996 a 20 anni nel
lavoro, attuale retribuzione 1.500 euro netti (25 mila lordi) andrà
in pensione nel 2041 (con 45 anni di contributi e a 65 anni, nella
migliore delle ipotesi) con una pensione attorno ai mille euro.
Ma la diffusione ancora rilevante di forme di lavoro non stabili (contratti a termine, ex co.co.co,) con periodi temporali non lavorati e non coperti da contribuzione, rende l'esempio sopracitato riservato solo ai più fortunati.
Il vero rischio è di avere un numero rilevante di giovani odierni, figli della precarietà, che matureranno, non la pensione anticipata (o di anzianità per capirci meglio), ma solo quella di vecchiaia attorno ai 70 anni. E sarà una pensione molto bassa, troppo bassa per vivere senza il sostegno dell'assistenza pubblica.
Eppure il nostro sistema di Welfare destina alla previdenza ed all'assistenza il 37,7% dell'intera spesa pubblica, quasi il 20% del PIL (nessun Paese europeo fa di più), qualcosa come 267 miliardi di lire, ai quali vanno aggiunti altri 34 miliardi (bilancio 2015 Inps) per interventi assistenziali: dalla Cassa Integrazione, agli assegni di accompagnamento (2 milioni di persone, pari a 12 miliardi) ed invalidità (1 milione di persone, pari a 2,5 miliardi), alle pensioni sociali, agli assegni familiari, alla disoccupazione, alle integrazioni al minimo per 4 milioni di persone e per un costo di quasi 10 miliardi nel 2015). In realtà il complesso degli interventi assistenziali sui 267 miliardi ammonta a ben 103, riclassificando come assistenziali interventi spesso definiti previdenziali (ad esempio le diffuse integrazioni al minimo).
Ma la diffusione ancora rilevante di forme di lavoro non stabili (contratti a termine, ex co.co.co,) con periodi temporali non lavorati e non coperti da contribuzione, rende l'esempio sopracitato riservato solo ai più fortunati.
Il vero rischio è di avere un numero rilevante di giovani odierni, figli della precarietà, che matureranno, non la pensione anticipata (o di anzianità per capirci meglio), ma solo quella di vecchiaia attorno ai 70 anni. E sarà una pensione molto bassa, troppo bassa per vivere senza il sostegno dell'assistenza pubblica.
Eppure il nostro sistema di Welfare destina alla previdenza ed all'assistenza il 37,7% dell'intera spesa pubblica, quasi il 20% del PIL (nessun Paese europeo fa di più), qualcosa come 267 miliardi di lire, ai quali vanno aggiunti altri 34 miliardi (bilancio 2015 Inps) per interventi assistenziali: dalla Cassa Integrazione, agli assegni di accompagnamento (2 milioni di persone, pari a 12 miliardi) ed invalidità (1 milione di persone, pari a 2,5 miliardi), alle pensioni sociali, agli assegni familiari, alla disoccupazione, alle integrazioni al minimo per 4 milioni di persone e per un costo di quasi 10 miliardi nel 2015). In realtà il complesso degli interventi assistenziali sui 267 miliardi ammonta a ben 103, riclassificando come assistenziali interventi spesso definiti previdenziali (ad esempio le diffuse integrazioni al minimo).
La scarsa
chiarezza nel bilancio Inps impedisce spesso di capire che cosa è
spesa pensionistica e che cosa è spesa assistenziale.
A
fronte di entrate per contributi (rappresentano il 33% della busta
paga, di cui 9% a carico del lavoratore e 24% a carico dell'azienda)
pari, nel 2015, a 191 miliardi di euro, il costo per l'erogazione delle
pensioni è attorno ai 211 miliardi, con un conguaglio a carico
della fiscalità di 20 miliardi.
Lo Stato deve intervenire quindi sia per coprire il pagamento delle pensioni in essere (molti fondi sono in deficit), sia per garantire interventi essenziali di protezione sociale.
Questo sistema nacque in un'altra fase storica del Paese, nel 1969, ministro Giacomo Brodolini, dove l'invecchiamento non era un dramma demografico e si facevano 2 figli per donna in età fertile, dove l'economia, pur con congiunture negative tirava, dove passava il principio di garantire ai lavoratori un tenore di vita nell'età della pensione analogo a quello avuto durante il lavoro.
Lo Stato deve intervenire quindi sia per coprire il pagamento delle pensioni in essere (molti fondi sono in deficit), sia per garantire interventi essenziali di protezione sociale.
Questo sistema nacque in un'altra fase storica del Paese, nel 1969, ministro Giacomo Brodolini, dove l'invecchiamento non era un dramma demografico e si facevano 2 figli per donna in età fertile, dove l'economia, pur con congiunture negative tirava, dove passava il principio di garantire ai lavoratori un tenore di vita nell'età della pensione analogo a quello avuto durante il lavoro.
Nel 1973 poi, per il pubblico impiego
venne consentita la possibilità di andare in pensione con 20 o 25
anni di lavoro (Stato ed Enti Locali), vale a dire, che attorno ai
40/45 anni i pubblici funzionari, gli insegnanti, potevano
iniziare una nuova vita: oggi i superstiti delle baby pensioni sono
530 mila con un onere a carico dello Stato di 9,5 miliardi. E questo
onere, mai come oggi iniquo, si è scaricato nell'Inps dopo
l'unificazione dell'Inpdap, la Cassa di Previdenza dei dipendenti
pubblici, nell'Inps.
Una giungla dalla quale si esce solo con la trasparenza dei bilanci ed una chiarezza tra spesa pensionistica (che ha bisogno di interventi non più chirurgici come nel 2011) e spesa assistenziale: ed è su quest'ultima che serve una riflessione onesta per evitare di scaricare sui giovani il peso di anni “allegri”.
Alberto Leoni
Una giungla dalla quale si esce solo con la trasparenza dei bilanci ed una chiarezza tra spesa pensionistica (che ha bisogno di interventi non più chirurgici come nel 2011) e spesa assistenziale: ed è su quest'ultima che serve una riflessione onesta per evitare di scaricare sui giovani il peso di anni “allegri”.
Alberto Leoni
Più chiaro di così...
RispondiEliminaSulla questione previdenziale non si scarica nulla sui giovani attuali. I giovani devono mettersi in testa che la loro pensione la pagheranno i figli che avranno: più figli ci saranno e maggiore sarà l’assegno mensile percepito.
RispondiEliminaI giovani di adesso si devono sposare e mettere al mondo dei figli, come hanno fatto i loro genitori.