mercoledì 15 giugno 2016
Terrazzamenti
(“nore” - “vanede” - “vanese” - "rive" - "masiere")
Migliaia e migliaia di “nore”.
Sapientemente costruite.
Migliaia e migliaia di pietre trasportate.
E migliaia di ceste di terra per riempirle.
E migliaia di viaggi
con il “derlin” (la gerla) sulle spalle,
colmo di letame.
Le nore, fin lassù,
fin sotto le rocce.
Testimoni di una vita essenziale.
Il giardino ora giace abbandonato.
Una corrente di risacca,
cinquant’anni fa,
ha catturato gli agricoltori,
e li ha spinti in fabbrica.
Altri, anni addietro, erano stati trasportati
dalla corrente nel Nuovo Mondo.
Giorno dopo giorno la Natura
ha ripreso la sua terra.
Ora, in estate,
un immenso mantello verde
tiene nascoste le “nore”.
Giorgio Schiesaro
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Per scelta o necessita, si nota un ritorno dei giovani all'agricoltura, "fenomeno in espansione, sancito anche dai dati dell’Istat che riportano, già da qualche anno, un incremento nel numero di occupati in agricoltura e in particolare degli under 35" (Il Fatto Quotidiano).
RispondiEliminaLe "vanede" che rappresentano migliaia di viaggi di sassi, migliaia di ceste di terra per riempirle, sforzi enormi dei nostri avi, potranno riservire, in un futuro prossimo ?
Ahimè giardino!
RispondiEliminaCentinaia e centinaia di chilometri, solo a Casotto, e così anche nella Valle, di masiere per consentire alla popolazione, molto più numerosa di adesso, di sopravvivere agli stenti di quell’epoca.
Proprio una miserevole agricoltura di sussistenza, quella praticata nelle “vanese” fino al secondo dopoguerra!
Mi ricordo l’annuale trasporto della terra, dalla base alla sommità della “vanesa”, delle volte molto ripida, eseguita ad inizio primavera con lo “zerlo”, ovvero utilizzando una speciale attrezzatura di forma rettangolare chiamata “siviera” munita, alle due estremità, degli appositi manici per consentirne la presa a due persone.
Anche il “bigolo” era utilizzato per il trasporto sulle spalle della “pisina”, che serviva per “ingrasare” la magra terra.
Le coltivazioni della patata, della vite e del foraggio per le bestie erano le più diffuse, ma si coltivava anche il “sorgo” e il frumento.
A differenza delle attuali rigogliose piantagioni uniformemente dorate di cereali che si vedono in pianura, i nostri campi di frumento erano caratterizzati da incantevoli variopinte punteggiature rosse e azzurre dovute ai papaveri ed ai fiordalisi, giacché a quel tempo non si usavano erbicidi.
Nelle stalle di quasi tutte le case c’era almeno una vacca, mentre i più poveri si dovevano accontentare della capra.
Nello “staloto” c’era il maiale, che veniva ingrassato con i “soendri” e con le patate “picole”, quindi veniva macellato in casa prima dell’inverno.
Ad esclusione della aratura, eseguita manualmente con la “vanga” dagli uomini sul finire dell’inverno, il lavoro dei campi era delegato alle donne ed ai bambini.
Non esistevano macchine agricole, ed il trasporto del fieno, delle patate e degli altri prodotti della terra avveniva esclusivamente sulle spalle delle donne (le “carghe” di fieno e “i sachi” di patate, potevano pesare anche 40÷60 kg). I carretti non potevano essere utilizzati, a causa delle forti pendenze del terreno.
Il fieno si trasportava in “carghe” ed era confezionato con due “soghe” incrociate a 90°, o con lo “strason” (tessuto in canapa a forma quadrata con corda ai quattro vertici).
Il trasporto avveniva non solo in discesa, ma anche in salita, per poter arrivare allo “stroso”, cioè al sentiero. Povere donne!
Come dicevo, il lavoro dei campi era delegato alle donne, mentre gli uomini erano impiegati all’estero, spesso in lavori molto più pesanti e con turni anche di 16 ore.
A costoro, presenti in famiglia nel periodo invernale, in attesa di emigrare di nuovo, spettavano la vangatura dei campi ed il taglio della legna da ardere.
La famiglia, di tipo patriarcale, i cui componenti si davano con rispetto del “voi”, era formata, in ordine per importanza, dal “nono”, dal “pare”, dalla “madona” (cioè la suocera della moglie), dalla “sposa” e da numerosi “fioi e fiole”, secondo l’età. Le spose dovevano forzatamente convivere con le cognate ancora nubili, confermando il vecchio adagio popolare: “Le done le se come le nose in scarsela, quando le se più de una, le canta”.
Per i “toseti” il vestiario, spesso raffazzonato, rabberciato con “taconi” in corrispondenza del sedere e delle ginocchia, ma pulito, passava dal più vecchio al più giovane, secondo le esigenze della crescita di ciascuno.
I “toseti”, più che rispetto, provavano paura per gli uomini, che, come dicevo, spesso erano assenti dal paese per motivi di lavoro. Infatti, in paese, durante gran parte dell’anno, i soli uomini che si potevano vedere erano i vecchi ed il prete.
Questa era la cruda realtà dell’epoca, descritta qui brevemente, in cui si coltivavano le cosiddette “vanese”: rallegriamoci di non essere costretti a riviverla.