Le
guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e
innocenti, inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che
non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai
loro interessi.
Questa verità, antica e profonda, oggi è meno
evidente, ma non meno vera.
Siamo realmente dentro una guerra
mondiale, diversa dalle guerre del Novecento, ma non meno drammatica.
Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando,
dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida.
Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi
la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca.
Questa
incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è
particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci
dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e
ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di
Parigi.
Una tesi
molto popolare è quella che individua nella religione, e in
particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’Islam, la
principale, se non unica, ragione di questa guerra.
Una tesi, questa,
tanto diffusa quanto sbagliata. Il corano ha una sua ambivalenza
riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita
alla guerra santa. Ma c’è anche una versione del fratricidio tra
Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di
non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi.
Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per
ucciderlo, e gli dice: «Anche
se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per
ucciderti»
(Il sacro Corano, al-Ma’idah: Sura 5,28). Abele presentato come il
primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso
stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo. Come nella Bibbia
ci sono i beniaminiti, la figlia di Jefte, le pagine dove si loda Dio
perché ha fracassato sulle rocce le teste dei bambini dei nemici,
c’è il Signore degli eserciti, Gesù che dice di essere venuto a
portare “la
spada e non la pace”
(Matteo 10). I libri sacri delle religioni sono stati scritti in
epoche dove la guerra era parte ordinaria della vita (“Al
tempo in cui i re sogliono andare in guerra”,
2 Samuele, 11). Al tempo stesso, le grandi religioni – e l’Islam
è tra queste poche – hanno sviluppato una letteratura sapienziale
(si pensi a tutta la tradizione Sufi) che ha offerto letture
simboliche e allegoriche anche delle pagine più dure e arcaiche. In
alcune epoche le pagine più luminose del corano (e ce ne sono) hanno
emanato una tale luce da oscurare quelle buie. In altre epoche i
passi violenti sono stati strumentalizzati da chi, in nome della
religione, cercava semplicemente potere e denaro.
Oggi l’Islam vive
una stagione difficile. Sétte fondamentaliste usano pezzi del corano
per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle
nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di
‘martiri’ da usare per scopi dove il corano è semplicemente il
laccio della trappola.
Per combattere questa malattia che oggi si è
insidiata nel cuore dell’Islam e che lo sta minando dal di dentro,
è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere
l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo
stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è
entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno
indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della
vita devono aiutare l’Islam a farcela. Nell’epoca della
globalizzazione, non può farcela da solo.
Al tempo
stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in
questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso
i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del
Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima
guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione
del fondamentalismo.
In
questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra.
Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo.
Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la
Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. La Francia insieme
all’Italia è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle
regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990
che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che
piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al
terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export
di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono
grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una
moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di
vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del
califfato, Isis e terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella
direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vorrebbe
combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne
accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva
dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo
che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle
scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a
frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a
provocare.
Hollande
ha sbagliato a parlare di “vendetta” all’indomani della strage,
e poi a perpetrarla bombardando domenica la Siria, rispondendo col
sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek,
precedente la stessa ‘legge del taglione’. La vendetta non deve
mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle
notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più
grande sarebbe far tornare parole come ‘vendetta’ nel lessico
delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di
civiltà, di sangue, dolore.
Infine
dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace
e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa
Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la
pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica
risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti
musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle
strade, nei social, davanti ai parlamenti, il nostro ‘no’ alla
produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e
ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco
troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di
muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più
controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.
di
Luigino Bruni
pubblicato
su Avvenire
il
17/11/2015
(segnalato da G&G)
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