[Gianni Spagnolo © 22C1]
Ancora frastornati dal Covid, ecco che ora arriva la guerra in Ucraina a ricordarci che pace, salute e benessere non sono mai conquiste definitive, ma devono essere coltivate, condivise e difese ogni giorno e in ogni occasione. Anche la parola “profughi”, ultimamente utilizzata a proposito e a sproposito, torna ad assumere un significato che tocca reminiscenze familiari non ancora sopite.
Ripensiamo alla nostra gente della Valle dell'Astico e dell’Altopiano che in poche ore, prima a ridosso della dichiarazione di guerra e infine sull’onda della Strafexpedition, dovette abbandonare precipitosamente le proprie case e i propri beni per avviarsi verso pianura, incontro a un destino insondabile. Un esodo che, forse per la prima volta, coinvolgeva i civili, le famiglie, i beni, sconvolgendo le radici stesse di una popolazione vissuta fino ad allora in un piccolo mondo regolato da riti e tradizioni secolari. Allora furono circa ottantamila persone a dover abbandonare le loro terre sui confini; giusto nell'incipiente stagione del fieno e delle malghe, nel pieno vigore della primavera. Dovettero lasciare tutto e scappare, assai poco considerate da quel Regno e da quel Governo che ben sapeva cosa si stava profilando e lasciò agire i militari con le loro paranoie di segretezze e disfattismi.
Sfollarono con vecchi, malati, bambini, senza sapere nemmeno dove andare, senza sapere se i paesi, le parrocchie, le famiglie stesse sarebbero rimaste unite. Solo i preti rimasero a seguire la loro gente, a dare qualche orientamento. Dovettero passare dei bei mesi prima che fosse organizzato qualche aiuto dalle istituzioni, che, manco a dirlo, fu fatto all’italiana. I profughi di Rotzo, che avrebbero dovuto fare riferimento a Barbarano, vennero infine sparsi tra Vicenza, Padova, Pavia, Venezia, Modena, Torino, finanche in Sicilia. Mi nonna, che allora aveva 19 anni, ancora s'ingropava quando ricordava quegli eventi. E il ritorno fu più tragico ancora. Molti giovani morti o invalidi, i paesi rasi al suolo, i boschi devastati, la terra cosparsa di crateri e residuati bellici. Fu sconvolto un mondo, il loro mondo.
Dicono che la prima vittima della guerra sia la verità. Forse non è del tutto vero: la prima vittima è la dignità, quella dell’uomo.
Bravo Gianni! Grande verità...
RispondiEliminaE importante la dignità, hai raggione Gianni.
RispondiEliminaPer me, la prima vittima della guerra sarebbe la PACE, verità lapalissiana. Un mondo in pace è un mondo in cui ognuno dovrebbe poter vivere con dignità, umanamente. Purtroppo, anche in un mondo "in pace" alcuni esseri non hanno, al giorno d'oggi, condizioni di vita dignitose. Mai stati tanti poveri nel mondo, fine 2021, diceva l'ONU.
Gianni,pensavo di deporre la penna dopo la storia della ferrovia transiberiana Mosca-Vladivostok e il tormentato destino dei nostri soldati,di età compresa tra i 22 e 40 anni,chiamati al fronte a difesa dei confini imperiali nel conflitto mondiale 1914-1918.La tua narrazione delle sofferenze della nostra Gente a causa della apertura delle ostilità tra l'Italia e l'Austria,in data 24 maggio 1915,mi inducono a raccontare la disperazione in quei giorni della popolazione di Pedemonte e Casotto aggravata dalla sofferenza indicibile per le oltre 50 vite perdute al fronte nei primi 8 mesi di guerra contro la Russia.Al termine del conflitto la stampa nazionale dichiarò che Pedemonte e Casotto erano i Comuni con più vittime di ogni altro,in rapporto alla rispettiva popolazione.L'esodo forzato della popolazione di ogni età dei due Comuni ebbe inizio, nel modo più autoritario e inumano, il giorno 02 giugno 1915 con partenza a piedi fino a Caldonazzo e successivo ammassamento su un treno merci, spoglio di ogni servizio,dove rimase oltre tre giorni con destinazione:Austria Superiore e Inferiore,sobborghi malsani di Vienna,Boemia e altre località sperdute e remote.Durante il viaggio,sopratutto a Salisburgo,vennero compiute manovre di direzione complesse e confuse che portarono alla divisione di gruppi famigliari e smarrimento di bambini poi recuperati grazie al solerte impegno dei sacerdoti chiamati alla assistenza spirituale dei profughi.Una odissea che durò oltre il triennio durante il quale morirono 80 persone,con 36 bambini, a causa del freddo ,nutrizione carente e altri disagi.La maggior parte della nostra popolazione era concentrata nell'accampamento di Braunau Am Inn chiamato"La città di legno".I defunti venivano sepolti in un cimitero riservato ai profughi situato, in prossimità di tale centro di raccolta,con al centro un grande salice piangente testimone di mestizia e memoria imperitura.Qualche decennio fa quel sacro luogo venne profanato con la realizzazione di un quartiere urbano senza la preventiva estumulazione dei resti umani dei nostri cari.Le ragioni principali della confinazione della popolazione in tali luoghi della erano dovute alla nostra appartenenza al Tirolo di lingua italiana particolarmente esposto alla tentazione di italianizzazione anche in caso di vittoria del conflitto avviato.Altrettanto drammatico fu il rientro nel Paese distrutto, a guerra conclusa, accentuato dalla umiliazione dei vinti poi assopita e scomparsa grazie alla intensità ai valori ospitali della conquistata terra redenta.Grazie per l'ospitalità.
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