mercoledì 16 marzo 2022

Le parole in dialetto veneto e i giochi di un tempo… el scalòn!


Quando sento parlare della bellezza della lingua veneta e della necessità di insegnarla, persino nelle scuole, penso a chi come me, povero maestro elementare, combatte da 40 anni “contro” il dialetto per far invece entrare nelle teste degli alunni quella “lingua straniera” e spesso sconosciuta che è l’italiano.

Devo ammettere che tutto ciò aveva più valore trent’anni fa e che oggi i nostri ragazzi parlano italiano, spesso anche in casa. Perché dico queste cose? Perché anch’io, che vivo naturalmente il dialetto veneto come madrelingua, vorrei sapere quante lingue venete ci sono.
Per esempio, la parola “gioco” come si traduce? E soprattutto come si scrive?
In alcune province ZOGO in altre ZIOGO, in talune parti SOGO (ma con la “S” che con con un suono tipico del nostro dialetto assomiglia alla “X”) da noi in altopiano SUGO ma sempre con quella “S” che va verso la “Z” e la “X” e che nulla ha a che fare con il sugo inteso come condimento per i bigoli! Allora tralasciando le difficoltà lessicali torniamo ai miei giochi di cinquant’anni fa.
Pochi giochi di gruppo, per le vie del paese, sulle strade e sulle piazze: “nascondino”, “libereme!”, “ciapa-scapa” “con le balète” “salta mussa” e “scalon”!
Oh Signore, mi rendo perfettamente conto come questi siano termini assolutamente incomprensibili per i miei figli e per ragazzi del duemila! Certo è, che si giocava assieme, in gruppo, ci si prendeva per mano, ci si toccava, ci si spingeva o ci si nascondeva in un orto, dentro un fienile, sotto una siepe e dietro l’angolo di una casa! E si era cercati e scoperti e si correva e si sudava e si urlava! E poi bisognava saper concentrarsi per colpire una biglia di vetro, colorata e bellissima, con la propria biglia più grossa “el bociòn” in modo da farla propria privando il proprio compagno del cuore del suo prezioso tesoro! Ma tanto, si sapeva che il gioco è gioco e che il giorno dopo ciò che avevi conquistato, sarebbe stato a sua volta riconquistato dal tuo amico o da qualche altro compagno e che quindi, prima o poi, il cerchio si chiudeva ed ognuno avrebbe avuto pressoché, le stesse biglie dell’altro! Ma c’era un gioco che mi piaceva moltissimo, un gioco sia per i maschi che per le femmine: era “el scalon” in italiano “il gioco della campana”.
Uscivamo in strada e, sull’asfalto scuro o sul grigio marciapiede, con un pezzo di mattone che lasciava la sua striscia rossa o con i pezzi di nero carbone della stufa, segnavamo per terra, le terribili 8 o 10 caselle. Poi c’era una scaglia di pietra bianca, da lanciare all’interno della prima casella e da lì, saltellando su un solo piede, si doveva colpire, leggermente, attentamente, con abilità da giocoliere, la scaglia per spingerla nella casella vicina. Guai a colpirla troppo forte, a farla uscire dalle caselle disegnate, a farla fermare sulla riga di confine tra una e l’altra casella. Un colpetto secco, con la punta del piede, preciso, né troppo forte, né troppo debole, per farla correre su quei trenta, quaranta centimetri di spazio e farla finire, con precisione all’interno della casella successiva. Chi andava fuori, o toccava i segni di delimitazione delle caselle, passava la mano ad altri! E il tutto su un solo piede e mantenendo l’equilibrio in quello stato! Era una ginnastica che oggi si chiamerebbe “psicomotricità” assolutamente naturale, e nasceva dall’esperienza quotidiana, e si esercitava solo dopo innumerevoli prove ed errori, una ginnastica che nasceva… dall’esperienza. Sì, perché nel nostro mondo di mezzo secolo fa, si potevano fare esperienze! Si poteva sbagliare, sbucciarsi un ginocchio, prendere una botta, strapparsi il vestito, ci si poteva sporcare, proprio insudiciarsi fino ad essere quasi irriconoscibili e tutto ciò era considerato come una normale esperienza di vita.
Con tenerezza mi chiedo dove siano oggi i bambini sporchi, sudati, laceri nei vestiti e paonazzi nei visi per lo sforzo del gioco! Quanta vita in quel meraviglioso “scalon” quante dispute, quanti imbrogli per vincere la gara. Vincere? Non c’era nulla da guadagnare, forse solo la stima dei compagni o il dolce sorriso della “morosetta” che era felice che il suo moroso fosse così bravo a spingere, tra le caselle disegnate a terra, una scaglia di pietra con l’abilità dei giocolieri del mitico Circo Orfei!
Ho cercato il significato del termine “giocare a campana”. Con sorpresa ho trovato che, forse, per storpiatura potrebbe derivare dal veneto “carampana”. In veneto significa donna corrotta, vecchia, brutta, persona di poca coscienziosità, ex prostituta... Carampana da Cà Rampani, il palazzo veneziano che si trovava in fondo alla Calle dei Bottai. Si sa che il Governo della Serenissima era laicissimo e assolutamente anticlericale! Per far dispetto alla chiesa aveva collocato la casa di tolleranza vicino alla Basilica di San Marco! Poi però ci fu un ripensamento e quando i nobili Rampani si estinsero e lasciarono i loro beni e il loro palazzo alla Repubblica Serenissima, si decise di trasferire qui il “casino” veneziano. Correva l’anno 1421 e le “signorine” ospiti di Cà Rampani furono chiamate “carampane”! Da qui ad arrivare al mio gioco “del scalon” ce ne vuole di fantasia, ma, i segreti della glottologia e l’evoluzione delle lingue sono misteriosi. Per me, per noi, resta la poesia di quelle sere estive, dalle lunghe ore di luce quando gli unici suoni del paese erano i mille garriti dei rondoni, il frinire dei grilli nei prati e le grida dei cento semplici giochi di noi bambini di mezzo secolo fa che giocavano il loro “scalon”!
Lucio Spagnolo

Nessun commento:

Posta un commento

La vignetta