[Gianni Spagnolo © 21N10】
Chi si ricorda quando si tenne l’ultimo filò in paese?
Probabilmente nessuno, perché la tradizione decadde repentinamente, superata da altre modalità e luoghi di aggregazione. Una tradizione plurisecolare, forse millenaria, che aveva nella memoria il suo cardine, s'è estinta così, senza memoria.
Filò dovrebbe verosimilmente derivare dal verbo “filare”, essendo questo il lavoro prevalente svolto dalle donne che si riunivano nelle stalle all’imbrunire e che poi ha finito per stabilire gli incontri serali di varie persone durante la stagione più fredda, per stare al caldo, per passare il tempo, per recitare il Rosario, per sentir qualche novità del paese o dei dintorni, per far piccoli lavori manuali, per parlare e per … sparlare.
“Far filò” voleva dire anche quel discorrere del più del meno, tra vicini di casa, tra gente della contra’, tra parenti e amici. Era un incontro plurigenerazionale, perché occasione di riunire insieme due, tre, a volte anche quattro generazioni. Far filò significava dunque stare insieme, discorrere, chiacchierare; malignare, calunniare, spettegolare, raccontare, custodire e trasmettere le tradizioni, e … tanto altro. Si faceva nelle stalle perché le case non erano riscaldate e d’inverno vi si poteva stare fintantoché funzionava il fuoco per preparare la cena, e anca anca; almeno finché non arrivò la cucina economica.
L’efficienza dei grandi fogolari tradizionali era al minimo sindacale, dato che riuscivano a trasformare in calore solo una piccola parte dell’energia termica della legna (non più del 15%), per cui non era conveniente consumare così tanta legna solo per riscaldarsi; che poi poteva goderne del tepore solo chi ci stava appresso e comunque lo riceveva a fette. Ecco che allora, giunta la sera, dopo cena, la gente si rifugiava all’umido calduccio delle stalle. Quel caldo aveva qualche inconveniente, perché il bestiame della stalla, in quell’ambiente solitamente piccolo e basso, produceva sì calore gratuito, ma contemporaneamente anche dei gratuiti afrori. Ma cossa vutu, …pitosto de incrutirse in casa, a jera mejo nar a inspussarse in stala, anca parvia che live se se catava in tanti, ... epò, la spussa de tuti la jera la spussa de nissuni. Nella stalla, infatti, si radunava la contrada, la corte; c’era insomma un po’ di mondo.
Terminata la parca cena, messi a letto i bambini più grandicelli, le donne e gli uomini si riunivano nella stalla. Le donne che andavano a “filò” di solito si portavano dietro qualcosa da fare: el córlo e la corléta per filare la lana, oppure il guindolo per far e disfare le matasse, aghi e filo per repessare, ferri da calze o da maglie. Le giovani donne, se erano da marito, procuravano di mettersi a posto la dota; gli uomini badavano ad aggiustare attrezzi da lavoro o a fabbricar qualche arnese utile per la casa e per la stalla, come sìsti, dèrli, restéi, forche, scagni da mòndare, ecc. Poi c’era il solito “letterato” che leggeva a puntate qualche libro famoso, oppure raccontava fatti accaduti o sentiti narrare da altri, spesso stravolgendone i contenuti. A quel tempo era la terza elementare il massimo dei titoli di studio che si potevano acquisire, magari frequentando la scuola per sette-otto anni, e la gente comune non conosceva molto di più di ciò che si raccontava nei filò. Il filò talvolta degenerava occasione di maldicenze e di pettegolezzi, specialmente sulle ore tarde, quando i ragazzi erano già stati avviati a letto, tuttavia si deve riconoscere che, per quei tempi, fu il principale canale di trasmissione e di diffusione di cultura. Di quella povera cultura di allora, beninteso, ma sempre di una forma di cultura si trattava; semplice, povera, ma era la nostra.
Infine, quando tutta l’assemblea era presente e prima che i più giovani tagliassero la corda per sottrarsi alla recitazione delle preghiere, la donna più anziana — di solito la padrona della stalla — la tacàva la Corona e drìo man Litanie, dala prima al’ultima, con tutte le invocazioni, accompagnate da una lunga sequenza di rechiemetèrna e preghiere in ricordo di gente della contrada e del paese, recitate in latino, che a voler ripeterne qualcuna si rischia la scomunica. Un breve florilegio: Ave Maria ména teco, santi mero, mena futo, venti mero. Santa mia, mena diei, mora mora, mori ame. Qualche burlone si dilettava pure con le parodie: In nomine pali et fili et strope par conservar senpre sane le vixele nostre…
Granca da métare col Grande Fratello VIP vardà al caldo stravacà in poltrona e col telecomando de bojo…
Io il filò non l'ho vissuto, ma mi sarebbe piaciuto tanto viverlo. Lo hai descritto in una tal maniera che leggendolo mi sembrava di essere lá. Grazie Gianni per tutti questi bellissimi racconti.
RispondiEliminaMia mamma mi ha raccontato questi momenti di vita nei quali preparava la sua dote, prima di sposarsi. Ho tenuto per ricordo le lenzuole, o le camicie ricamate a mano. Non so come facevano con la poca luce che c'era nelle stalle, dove trovavano, almeno un po di calore.
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