Nel piccolo paese sulla cima della montagna, ancora oggi si
continuano a raccontare storie, cosi come le si raccontava cento o
duecento anni fa.
A volte sono storie grandi, che incrociano i
destini dei regni e dei re, e stanno dentro i libri, altre volte sono
storie piccole, che anche un sottile refolo di vento può cancellare
per sempre dalla memoria di chi le ha narrate, cosi come da quella di
chi le ha ascoltate.
Questa è una piccola storia, appartiene solo a
chi l’ha vissuta, è una storia così piccola, che forse, per non
perdersi, ha sentito anche lei il bisogno di essere scritta.
No, benché questa sia la cronaca minima di un giorno lontano,
meglio, di un giorno e una notte lontani, io credo che non si
cancellerà mai dalla mia mente, cosi come non si cancellerà mai il
ricordo di mio padre, anche se oramai gli anni, gli inverni, i
Natali, trascorsi da allora, sono così tanti, che faccio fatica a
contarli, e i metri di neve accumulati in tutto questo tempo,
arriverebbero senz’altro a toccare il cielo.
Ogni volta che chiudo
gli occhi, posso rivivere quelle ore lontane senza alcuno sforzo.
Tutto il mondo
aveva il sapore buono della fiaba, o di un quadro di Brügel, tutto
il mondo aveva quel gusto che la vita conserva intatto solo prima dei
vent’anni, poi irrimediabilmente con il passare del tempo
irrancidisce; ma allora, per fortuna, ancora non lo sapevo.
Il giorno
finiva delicatamente dentro una notte di magia. Insieme a mio padre
avevo spalato neve per ore per tenere aperta la strada che ci teneva
in contatto con il mondo. Al rientro, la mamma ci aveva preparato il
caffè con la grappa. Mio padre accese il fuoco nel camino, la scarsa
luce del giorno se ne andava via piano, piano, e si era fatta quasi
l’ora della cena. Erano così quelle giornate, semplici, brevi e
perfette.
Minestrone con il lardo, qualche fetta di salame e fagioli con la cipolla, tutta qua la cena, caro amico che leggi. Erano lontani, anche se non del tutto dimenticati, i pasti a base di patate, così uguali al pranzo e alla cena del giorno prima, patate, patate truccate dalla povera fantasia di mamma in purè con sopra lo zucchero, o cotte con la scorza dentro le braci del focolare. La fame no, per fortuna mia e dei miei fratelli quella non l’abbiamo mai assaggiata, ma le patate eh… quelle sì, tante e sempre.
Minestrone con il lardo, qualche fetta di salame e fagioli con la cipolla, tutta qua la cena, caro amico che leggi. Erano lontani, anche se non del tutto dimenticati, i pasti a base di patate, così uguali al pranzo e alla cena del giorno prima, patate, patate truccate dalla povera fantasia di mamma in purè con sopra lo zucchero, o cotte con la scorza dentro le braci del focolare. La fame no, per fortuna mia e dei miei fratelli quella non l’abbiamo mai assaggiata, ma le patate eh… quelle sì, tante e sempre.
Non c’era vino sulla nostra tavola, il padre
beveva un liquido rosso che avvelenava, io acqua e holar, il dolce
sciroppo dei frutti del sambuco, per la cui preparazione mia madre
impiegava settimane intere, durante l’estate; il vino di arte e
scienza l’avrei conosciuto solo molti anni dopo.
Finita la cena, c’era ancora il tempo per una
tazza di caffè, e per scambiare quattro chiacchiere con i genitori;
mio Padre, come sempre, si metteva ad inventariare i più vecchi del
paese, chissà se abbia mai pensato che un giorno, prima di andarsene
per sempre, proprio lui sarebbe stato tra loro.
Arrivò in fretta anche l’ora di andare a dormire,
ma rimaneva ancora il tempo per un’ultima occhiata alla notte, alla
neve, che continuava a cadere imperterrita, indifferente, sul mondo,
sui suoi odi, sugli amori, sulla miseria, sulla solitudine di un
paese moribondo.
Nevicava così forte, che i lampioni sulla strada
sparivano nel bianco lattiginoso e la notte diventava signora
assoluta. Pur abituato al silenzio, quella sera lo sentivo, se
possibile, ancora più forte, scendeva sino in fondo all’anima e la
graffiava senza pietà lasciando segni violacei come cicatrici di
ferite guarite male. Appena i genitori se ne furono andati a letto,
ho tirato fuori il vecchio quaderno ed ho iniziato a scrivere, un
piacere antico al quale non ho mai rinunciato ovunque mi abbia
portato la vita.
Era notte alta ormai, la mia lampada era ancora
accesa, la neve cadeva senza posa, il vento faceva mulinelli alla
luce rada dei lampioni; all’improvviso nel buio una voce, io non
volevo crederci, ma più mi dicevo, che non era possibile, più
sentivo quella voce che chiamava: «Mino, Mino!» Il nome di mio
padre arrivava soffocato da tutta quella neve, che attutiva ogni
rumore e trasformava il paese in un nido di ovatta. Mentre cercavo di
capire cosa stesse succedendo qualcuno di sotto aprì una finestra,
sentii un fitto parlottio agitato, non riuscivo a capire granché,
solo alla fine la voce decisa del genitore: «Va bene Beppa, veniamo
subito». Non sapevo cosa pensare, chi andava, e dove, a quell’ora
di notte?
La neve non aveva smesso di cadere neppure per un
attimo, era alta ormai più di mezzo metro, ricopriva tutto lo
steccato, il freddo si era fatto ancora più intenso e pungente e
penetrava con spifferi feroci dentro la mia camera senza
riscaldamento, un’ombra minuta spariva misteriosa nella notte
bianca. Qualcuno ora bussava deciso alla porta della camera: «Andrea
sei sveglio?» «Vengo subito», risposi. Con poche parole mi
raccontarono quello che stava succedendo, la mucca delle sorelle Pön
stava partorendo, ma non riuscivano a sgravarla, l’Aldo Slåntzi
non c’era, era troppo impegnato con lo spazzaneve. L’Aldo era
l’uomo sapiente del mio piccolo villaggio di elfi, e tra le molte
cose di cui era capace, c’era anche quella di dottore delle mucche,
ma era anche cantoniere, e allora doveva tener fede alla promessa,
fatta prima di tutto a se stesso, e quindi all’intero paese: «Fino
a quando ci sarò io, la strada da qui a Monterovere non si chiuderà
mai». C’era riuscito l’Aldo, anche durante l’eccezionale
nevicata dell’ ’86 quando in due giorni caddero più di quattro
metri di neve, ma questa è un’altra storia.
Padre e figlio uscirono nella notte, il padre
davanti come sempre, il figlio due passi più indietro. Non era
facile camminare con la neve negli occhi e il vento che scudisciava
il viso con cristalli di sale. Arrivati sulla porta della stalla
delle signore Pön, tutti si fecero da parte, per far entrare “dar
Mino”, ero fiero di quel padre a cui tutti portavano rispetto.
Il travaglio della povera bestia era iniziato
parecchie ore prima, all’inizio, pensavano le sorelle di potersela
cavare da sole come sempre, poi, viste le difficoltà, allertarono il
nipote, quindi altre persone, infine il Nåne; insomma, una piccola
folla.
Il Nåne cercò di spiegarsi: «le zampe sono già
fuori, le abbiamo legate ma non viene» disse sconsolato.
Mio padre non ha mai bestemmiato in vita sua e di
certo non avrebbe iniziato quella notte nella stalla delle Pön
davanti alle cinque sorelle, ma guardando il Nåne dritto negli
occhi: «Esl» gli disse, «Asino, non vedi che sono le zampe
posteriori, il vitello è girato», podalico direbbero quelli che di
queste cose sanno anche la lingua.
«Bisogna rovesciarlo, ho bisogno di spazio, andate
via tutti, basta mio figlio.»
Il caldo soffocante, l’odore acre di stalla misto
a disinfettante, il sangue, le acque, e in più la tensione, creavano
un misto difficile da sopportare e spesso i meno esperti svenivano
senza pietà, lo sapevo bene, avevo solo sei anni quando assistetti
per la prima volta ad un parto di vacca e non molti di più quando
vidi mio fratello maggiore accasciarsi privo di sensi, poi
riprendersi, vomitare l’anima e scappare, mentre io me la ridevo a
crepapelle.
Una certa animazione sulla porta distolse per un
attimo l’attenzione di padre e figlio, il nipote delle sorelle era
caduto, svenuto a faccia in giù nel letame, la situazione era
tragicomica.
Oramai tutti si accalcavano attorno a Riccardo, così
si chiamava il nipote, la mucca era dimenticata e finalmente potemmo
iniziare. Mio padre lavorò con abilità, mentre io lo sostenevo
spingendolo con tutta la mia forza. Riuscì in breve ad afferrare le
orecchie del vitello e a farlo ruotare dentro la pancia della madre.
Una volta in posizione normale fu facile farlo nascere. Quando
l’attenzione dei presenti ritornò sulla bestia, tutto era finito:
un bellissimo torello stava vicino alla madre che lo puliva
affettuosamente con la lingua. Tutto era successo così in fretta,
dopo più di dodici ore di fatica e di tensione, che sembrò un
miracolo. Una nuova vita cercava di affrontare il mondo su quattro
zampe incerte, ma a primavera sarebbe stata pronta a correre. La
Beppa si precipitò a preparare il bevarù, una specie di polenta
liquida con semi di lino. Date una bottiglia di vino alla mucca,
disse con noncuranza il Mino, è tutto a posto ora. La Marietta andò
a prendere la grappa, il grappino targa oro della più antica
distilleria trentina, ne bevemmo un goccio. Padre e figlio salutarono
la compagnia, si era fatto tardi. Fuori dalla stalla ci accolse la
notte di stelle più bella che io abbia mai visto e che non vedrò
mai più e mai, mai più nella vita dimenticherò.
La luna camminava al limitare del bosco e lo
illuminava a giorno. La neve brillava come milioni di preziose pietre
per i diademi delle fate, e le stelle, gli occhi degli dei sul mondo,
quella notte guardavano solo padre e figlio, il primo davanti,
l’altro due passi più indietro, senza parlare. Perché mai
avrebbero dovuto.
E domani, ma forse già oggi, era Natale.
Adesso, che mio padre non c’è più, e non c’è
più la stalla delle sorelle Pön, adesso che un intero mondo è
scomparso per sempre... Adesso, se non avessi paura di bestemmiare vi
direi che quella notte di trentatre anni fa, nel piccolo paese sulla
cima della montagna era Nato ancora una volta il Redentore del mondo.
Andrea, con una lacrima che riga il mio volto dall'emozione auguro a te ed ai tuoi cari un Sereno Natale
RispondiEliminaGrazie infinite Renata. Un sereno natale anche a te. Andrea
EliminaGrazie Andrea. Vedo che i l tuo fanciullino, come direbbe il Pascoli, è più vispo che mai e ti auguro di conservarlo così sempre. Buon Natale a te e Famiglia e un nuovo anno che faccia risplendere i tuoi talenti.
RispondiEliminaAndrea, per il momento non c'è neve sul nostro altopiano, come non c'è a Luserna da te, penso. (?) Nonostante la mancanza dell'oro bianco, siamo impregnati dall'atmosfera magica di Natale, per merito del tuo talento, . Basterà, questa notte, chiudere gli occhi e pensare al tuo racconto, sono sicura che tornerà il gusto di eternità del quale parli e che, per me, non si perde mai.
RispondiEliminaMa, da dove viene il sentimento di eternità quando si guarda cadere la neve ? Forse, come diceva G.Flaubert (1915) :" Il pensiero è come l'anima, eterna, e l'azione come il corpo, mortale.
Allora, dobbiamo pensare da uomini d'azione e agire da uomini di pensiero ?
Grazie Andrea per il tuo pensiero !
Groose fölkar zèint dii ba habent mindor so léeban. Guuta Bainacht.
RispondiEliminaGuate Boinichtn diar o. Andrea
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