【Gianni Spagnolo © 21M14】
Gli angoli della cantina della mia casa paterna erano occupati da attrezzature che stiàni erano ricorrenti e fondamentali nell’economia domestica. Appena entrati, sull’angolo di sinistra c’era il vedólo dj capussi, col so bel priòto sul covercio par tegnìrli fracà dò e su quello di fronte la vasca delle patate, mentre sull’angolo di destra c’era la tina del vin e di fronte… la vasca dela calsìna.
Cosa ci facesse lì quella vasca, l’unico contenitore privo di valenze alimentari, era per me un mistero. Capivo i capùssi, le patate e anche el vin, majinarse i saladi picà via, ma la calce mi sembrava fuori luogo. La calsìna era conservata in una vasca in muratura e tenuta costantemente in moja. C’era immerso una specie di pestello, come quello usato per schissare le patate paj mastci, col quale io mi divertivo a rimestare quella poltiglia bianchissima e cremosa. In verità, avere della calce in casa pronta all’uso era necessario; serviva a dipingere le pareti, a disinfettare il pollaio, a gestire qualche morìa di animali, a fare riparazioni murarie, a preparare anticrittogamici biologici, e altre cose ancora. Tenerla in cantina era d’altronde necessario per limitarne l’evaporazione, parvìa che se la se secava a no la jera pì bona. Mio Papà mi spiegava che esistono tre tipi di calce, quella viva, quella spenta e poi quella idraulica della Tassullo che vendeva il Marsonaro. La prima si ricavava cuocendo delle particolari pietre calcaree dell’Astico e si presentava sotto forma di candidi sassi leggeri dalla consistenza gessosa, mentre la seconda era ottenuta bagnando con acqua quegli stessi sassi che si riducevano così in quella poltiglia bianca nella vasca sfritegando ed emettendo calore.
Ancamassa ciò, a jera sassi chj scaldava fa na flassa.
Mi diceva che bisognava stare attenti a maneggiare quelle sostanze, perché erano pericolose e corrosive e qualcuno in paese ci aveva rimesso l’occhio colpito dagli schizzi caustici della calce. Perciò dovevo molàrghe di andare a pociàre intela vasca della calce, sonò a podévo anca perder l’ocio. La terza era una roba moderna, che induriva con l’evaporazione dell’acqua, come il cemento, invece che per aereazione come la calsina.
Dovetti attendere di frequentare le scuole superiori per capire la chimica di quei concetti. La calce viva era ossido di calcio, ossia CaO. Quella spenta (o idrata) aggiungendoci acqua, diventava idrossido di calcio, Ca(OH)2 e rilasciava calore per la reazione. Dalle parti nostre sapevano benissimo cos’era il cao: a ghe jéra presenpio cuélo dela visèla, del sogàto, del filo da cusìre e tanti altri, mentre il calcio era quello che prendevi sul sedere o quello sferrato dai muli infastiditi dal salvanélo. Difatti i nostri riuscivano comunque a catare el cao della questione per esperienza vissuta e sensa tante ciavarìe.
L’uso della calce da parte dei nostri progenitori credo non fosse troppo antico; datava forse del Cinquecento quando iniziarono a costruire le case con la malta di calce invece che con sassi a secco e legno come probabilmente fecero fino ad allora. Il primo cimento, è il caso di dirlo, con questo nuovo materiale da costruzione fu forse in relazione alla costruzione della nuova chiesa. La chiesa costruita nel 1585 pare sia stata la seconda del paese, dopo la prima che era quella dell’Ospizio. Ciò significherebbe che la chiesa originale durò per almeno cinque secoli, mentre le successive ressero al massimo per due. Verosimilmente era stata costruita bene, ma potrebbe anche significare che fosse l’unica costruzione in muratura di malta in un contesto dove le abitazioni erano ancora prevalentemente di legno, con i basamenti, dov’erano situate cantine e stalle, eretti a secco. Allora la calce non serviva e magari non la sapevano neanche produrre.
Fare la calce era un processo laborioso e dispendioso, oltre a richiedere esperienza e maestria per ottenere un esito accettabile in qualità e quantità. Esso richiedeva un’apposito edificio, ossia la calcara, e un notevole quantitativo di combustibile in fascine. Per la cottura dei sassi occorreva infatti raggiungere temperature anche superiori ai mille gradi, ottenibili solo con una gran quantità di fascine di faggio ben secche che potessero mantenere la fiamma vigorosa per vari giorni. Per i calcari non era un problema, dato che l’Astico e i Jarùni ne offrivano in abbondanza, bastava solo sapere riconoscere i priòti più adatti allo scopo, ossia quelli con meno impurità. La calcara invece doveva essere costruita con pietre diverse, capaci di reggere temperature più alte dei calcari, altrimenti si sarebbe sfarinata come loro. Ecco che allora si cercavano le selci, i basalti, i graniti, le arenarie e quant’altro fosse disponibile di diverso dall’onnipresente calcare. Produrre la calce era dunque un processo industriale vero e proprio, senz’altro il primo affrontato dai nostri avi. Era complesso, costoso e richiedeva molta organizzazione e manodopera. Difficilmente poteva quindi essere iniziativa di privati, ma si attuava solo in occasione di obiettivi importanti per l’intera comunità e con l'ampio concorso della stessa. Solo un consorzio di scopo poteva dunque attivare una fornace e condividerne i benefici. Ovvio perciò che la conservazione della calce fosse una necessità, dato che la produzione avveniva solo con sporadica occasionalità.
La calcara andava costruita in un sito strategico e isolato, prossimo al luogo di raccolta dei sassi e agevole al conferimento delle fascine, per ottimizzare i trasporti. Si scavava un foro circolare incassato nel pendio e si erigeva la muratura perimetrale con grossi sassi squadrati conferendogli un profilo leggermente troncoconico. All’interno veniva eretto un fornello di sassi alto circa un metro e sopra questo vano si appoggiava con grande perizia una volta semisferica composta da pietre allungate (i cugni). La volta aveva la doppia funzione di ricavarci sotto il focolare per la legna e sostenere la massa di sassi da cuocere, che vi venivano posizionati sopra con dimensioni decrescenti. Alla fine il cumulo (la cota) veniva completato dandogli una forma a cupola, che veniva coperta con uno strato di malta, lasciandovi dei fori che fungevano da camino (i vanparùi). Sul culmine era posta una rudimentale croce e veniva chiamato il prete per una benedizione propiziatoria al buon esito del processo. Nossessamai!
La costruzione poteva avere dimensioni diverse, a seconda della produzione da ottenere; generalmente aveva un diametro dai tre ai cinque metri e altrettanti in altezza. La calcara era quindi divisa in due parti: una superiore destinata alla cottura dei sassi e una inferiore dove veniva alimentato il fuoco attraverso una porta frontale, detta bochéta. Un piccola apertura collegava il fornello con l’esterno per l’alimentazione e il controllo dell’aria comburente. Dalla bochéta si passava quindi all'accensione del fuoco, portando in temperatura la calcara con gradualità. Era necessaria molta attenzione e poca legna nella fase di riscaldamento per non compromettere la bontà del prodotto: la pietra non doveva annerire e bisognava evitare la formazione di un nucleo crudo all’interno dei blocchi di calcare; perciò le operazioni erano condotte da un fornaciaio esperto coadiuvato da diversi aiutanti. Poco a poco le fiamme penetravano attraverso la massa calcarea e giungevano fino in cima alla fornace. Il fuoco doveva essere continuamente alimentato per una combustione lenta e progressiva, a volte fino a 1300° C, per circa otto o dieci giorni. Per garantire un livello di temperatura così alto e costante erano necessari fino a 200 quintali di legna, per ottenere circa 120 quintali di calce viva. Grandi cataste di fascine dovevano perciò essere ammassate in prossimità della calcara, mentre il fuoco necessitava di costante alimentazione e controllo. Le fiammelle verdi e gialle che uscivano dalla cota, a fine cottura diventavano azzurre segnalando l’avvenuta trasformazione del carbonato di calcio in ossido di calcio, ossia calce viva. Lo stato d'avanzamento del processo di cottura veniva verificato empiricamente estraendo uno dei sassi sommitali e gettandolo lontano in una tinozza d’acqua. Se il pezzo era completamente calcinato, al contatto con il liquido esplodeva in mille pezzi che si proiettavano all’intorno. Il raffreddamento della pietra doveva avvenire lentamente; si proteggeva la sommità del cumulo con tavole, per difendere il prodotto da acquazzoni improvvisi. La roccia estratta dal forno presentava una tonalità più chiara di quella originaria e aveva perso circa il trenta per cento del suo peso. Il forno veniva svuotato, iniziando a rimuovere le rocce dall’alto per disfare infine la volta. Era questa la fase più delicata, data la causticità del materiale che poteva ustionare le parti del corpo con cui entrava in contatto; specialmente gli occhi, che con la loro umidità scatenavano il processo di spegnimento sulle schegge di calce viva che li colpivano, arrivando in casi estremi a compromettere l’organo. Allora non c’erano occhiali, né guanti e possiamo immaginare la delicatezza dell’operazione condotta senza adeguata protezione. Considerato l'onere di costruzione, le calcare si mantenevano per secoli, caratterizzando il territorio e servendo ai diversi scopi costruttivi della comunità.
La calcara della foto è quella situata a margine della Pontara Vecia, a monte di contra’ Cerati e servì anche per la costruzione dell’ultima chiesa. Era più piccola dell’altra posta su in Scalòn, che fu approntata specificatamente per costruire il tempio. Quella della Pontara è probabile che sia addirittura la prima calcara del paese, costruita per l’edificazione della chiesa nel 1585 e poi, nel 1617, del mulino e della segheria consortile, posti lì vicino sulla nuova roggia che irrigava i prati dell’Astico prendendo l’acqua oltre lo sbocco della Val dei Mori. Sicuramente servì in seguito alla costruzione dei fabbricati della Dogana Veneta e del portico del Dazio. Opere quindi consortili o pubbliche, sicuramente le prime significative affrontate in paese. Sotto ai Cogulìti esisteva dunque un piccolo parco di archeologia industriale sanpierota, costituito dalla calcara, dal mulino, dalla segheria e dalla roggia; roba vecchia di quattro secoli e prima testimonianza industriale del paese. Negli anni Sessanta c'erano ancora le strutture in legno della vecchia segheria alla veneziana, dove ci avventuravamo a giocare. È stato lasciato andare tuto a remengo ed è proprio un peccato.
Non ci giustifica l’ignoranza, perché sapevamo, né i costi, perché non ci sarebbe voluto granché. Quelli che mancavano, come sempre, erano la cultura e la sensibilità, la cui latitanza ci fa meritare quello che abbiamo. Andiamo dunque il Trentino ad apprezzare la loro capacità di conservazione e valorizzazione del loro retaggio; facciamo foto, complimentiamoci, rimpiangiamo di non averla anche noi, parenti poveri senza schei. Già, ...senpre colpa dj schei!
Ci sarà magari qualche anziano di casa che dirà, guardando le foto: “Vara che sta roba chìve a la ghivinu anca nantri, … dò live soto ai Cogulìti e anca dò da Basso, …su in Val de Tognòn, …parfìn rénte ala Bóte a ghìn jera una.”
L’inportante a xe de incimentare i salìsi.
Giulio
RispondiEliminaNon voglio ripétermi pero la realta e quella ,la storia del paese e stata fatta con i Valdasticiensi e quelli che erano alla direzione del commune che non hanno saputo creare,inventare l’attivita in modo che si potesse vivere in paese.Le critiche saranno molte, non e importante veramente!i sogetti che Gianni descrive con molta attenzione e come leggere la biografia di un personaggio storico!Qui il personaggio e San Piero Valdastico il nostro paese che pian pian ci sfugge.Certo e piu facile parlare che fare,lo so perche da molti anni mi batto in modo che l’attivita tennistica a Valdastico prenda piu importanza con la construzione di un muro di allenamento per i giovani! Delle promesse sono state fatte!!! invece siamo sempre li.Mi teneva a cuore parlare di questo problema (tennis) Pero volevo scrivere sulle calcare e completare l’articolo di Gianni, per dire che le calcare,come le masiere sono dei monumenti del paese,forse non sappiamo dove sono situate ,e perché sono state fatte li. Ce la calcara della BOTE che si trova a l’inizio della Cingela tra il Cuco e la Bote.Si puo ancora intravederla (le rovine) attraverso spini e rami. Non conosco la ragione esatta perche e stata fatta li,ho qualche idea !! pero penso che certe persone lo sanno meglio di me. Forse tutti i lettori conoscono la sua esistenza!!benissimo nel caso contrario fate una paseggiata fino in cima el campo scoprirete la calcare della Bote e una belissima vista del paese.
Grazie, per l'intera descrizione, molto ben esposto.
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