Scriveva Mario Rigoni Stern: "Nel territorio dei Sette Comuni non esistono castelli di nobili, non esistono ville di Signori, ne cattedrali di vescovi, per il semplice fatto che la terra è del popolo e i suoi frutti sono di tutti come ad uso antico".
Così mio nonno, i nostri nonni, vivevano con i frutti dei loro terreni di proprietà, pochi o tanti che fossero e raccoglievano dalla proprietà collettiva l'erba e la legna pascolandovi anche le proprie pecore e capre o le loro poche mucche poiché godevano degli antichi diritti di “erbatico, legnatico e pascolivo”. Professione “mastellaio” c'è scritto, vicino al nome del mio nonno paterno, Domenico, sui documenti di un secolo fa. Allora bastava fare mastelli, secchi di legno, rastrelli o manici per le forche e le asce per avere quel poco che serviva alla sussistenza di quelle famiglie numerose.
Non così in altre zone della nostra regione. A Castion, quel piccolo paese che si affaccia sul Lago di Garda dove viveva mia madre, esisteva la “mezzadria”. Il mio nonno materno, Luciano, era un mezzadro. Poichè lavorava i vasti appezzamenti del Conte Pellegrini, aveva l'obbligo di dividere con lui, col proprietario, ogni parte di raccolto: grano, sorgo, avena, uva e olive che coltivava su quelle colline con i piedi nel Lago.
A Rotzo ognuno viveva “di suo” e aveva la sua, magari povera, casa; in quel del Garda mio nonno materno viveva in una casa che gli era data dal padrone.
Ed era una sfida per lui, lavorare quella terra, coltivare quei campi, quei frutteti perché, se a giudizio del Conte, quel lavoro fosse stato considerato insufficiente, il mezzadro perdeva lavoro e casa.
L'anno agricolo era scandito da date precise, certe, che si ripetevano da decenni e forse da secoli e cadevano in giorni particolari. In quei giorni nasceva un proverbio, un modo di dire che dava il senso della lotta, della durezza del vivere quotidiano.
Normalmente la prima rata degli affitti agrari si pagava il 25 luglio, il giorno di San Giacomo Apostolo. Ed ecco il proverbio: “San Giacomo busiàro” perché molto spesso, in quel momento, il mezzadro chiedeva al padrone una proroga sul pagamento reclamando motivi vari, sulla brutta stagione precedente, sullo scarso rendimento di questo o quel terreno o motivi di altro genere talvolta fasulli “busiàri” appunto. Il padrone, se proprio non era un canchero, faceva finta di credere alla bugie.
La proroga veniva concessa per qualche mese, fino al giorno di un altro santo, San Martino, l'11 novembre. “San Martin veritiero” diceva il proverbio perché se entro la festa del santo non si arrivava a saldare i conti, il povero contadino perdeva il suo lavoro e, con esso, la casa dove abitava. Doveva caricare sul carro e portare via le poche cose che aveva: qualche pentola, forse alcuni materassi riempiti con “i scartossi”, le foglie del mais, le coperte e via, in mezzo alla strada; doveva fare “San Martin!”
Ma doveva fare san Martin anche chi, a Pasqua o dintorni, riceveva dal padrone un pezzo di carne, un pollo, un tacchino. Quel cibo tanto desiderato che i poveri potevano concedersi solo poche volte l'anno, era in realtà un “dono” avvelenato perché era il segnale che il padrone aveva deciso di rompere il contratto e quindi il contadino, il mezzadro, doveva cercarsi un'altra destinazione. “A go ciapà la carne” diceva allora il castigato, con tono triste, ma rassegnato di chi sapeva che nulla avrebbe potuto fare di fronte alla fermezza del più ricco, del più forte, del padrone.
In questi nostri giorni in cui ogni più piccolo screzio, ogni contrarietà, ogni decisione sul lavoro diventa una vertenza con giudici, sindacati, scioperi e manifestazioni, ripenso agli sforzi dei mezzadri di quasi un secolo fa e del mio nonno Luciano, che lavorando duro lui, la sua moglie Nina e tutti i suoi figli ancora in giovane età, riuscì a non fare mai “San Martin” e mai il Conte pensò di “dargli la carne”.
Ricordi di un tempo che per molti è lontano e sconosciuto ma che è ancora vivo e quasi presente, per chi, come me, ha sentito raccontare queste cose dalla dolce, calda voce dell'amata nonna Nina.
Lucio Spagnolo
Bellissimo racconto, grazie Lucio.
RispondiEliminaRacconto interessante ed istruttivo. Meriterebbe un posto in una antologia scolastica per ragazzi. Bravo Lucio.
RispondiEliminaDa vedere, per capire la mezzadria, il film di Olmi "L'Albero degli zoccoli".
Bellissimo racconto di vita dei nostri vecchi. Bravo
RispondiEliminaÈ sempre un piacere leggere quanto scrive lucio grazie
RispondiEliminaPurtroppo, i nostri nonni, che avevano la piena proprietà dell’antico patrimonio collettivo, hanno accettato, contrariamente ad altri, la legge sugli Usi Civici del 1927, che li trasformò, ipso facto, da proprietari, in semplici usufruttuari.
RispondiEliminaSarebbe per davvero opportuno un gesto di orgoglio e poter definire il territorio della Reggenza “Magnifica Regola dei Sette Comuni”, e ritornare ad essere pienamente proprietari dell’antico patrimonio collettivo, con tutte le vantaggiose implicazioni che ciò comporterebbe per gli aventi diritto di S. Pietro e di Pedescala.