【Gianni Spagnolo © 21M13】
Siamo ossessionati dal controllo, dobbiamo averlo assoluto di ogni situazione, anche la più insignificante. Dicono che la temperatura globale stia salendo eppur noi ci diamo da fare a isolare le case come mai s’è fatto a memoria d’uomo. Vabbè che d’estate il condizionatore deve andare a manetta, ma siamo sicuri che la caccia all’ultimo spiffero sia così salutare?
L’ospite più presente nelle case de stiàni era proprio lo spiffero. Passava dalle finestre mal combinate, dalle porte con le sfése che ci passava un gatto, dalle tavole del solàro rattrappite dal tempo e da tanti altri pertugi che erano anche le vie di comunicazione di una nutrita serie di animaletti da due a otto e più zampe. Il fogolare o la stufa della cucina erano poi una potentissima pompa di calore ante litteram, in quanto aspiravano l’aria dall’esterno e la veicolavano su per il camino. Sì, perché la gran massa d’aria calda che usciva dal camino, da qualche parte doveva pur entrare. C’entrava senza problemi anche a porte e finestre chiuse, dato che i camini tiravano bene anche con la casa sprangata. Ne ha sperimentato la realtà chi si è piccato di mantenere un fogolare in una moderna casa sigillata.
Comunque sia, il ricambio di aria nelle case de stiàni era l’ultimo dei problemi, era garantito dallo stato dell’arte della tecnologia costruttiva d’allora. Va da sé che l’efficienza energetica era ben al di là da venire, con il fogolare che rendeva neanche il 15% dell’energia fornita dalla legna e la gran massa d’aria che circolava indisturbata. Non stupisce pertanto che d'inverno, l’unico ambiente caldo e, si fa per dire, confortevole, fosse la stalla. Il comfort interno delle case d’inverno era perciò un problema, dato che l’unico ambiente riscaldato era la cucina. Non mancavano tuttavia spazi di autentica libidine che oggi si possono appena immaginare. Già il maggior salto di temperatura faceva apprezzare di più le differenze, ma c’erano tecnologie primordiali che, nella loro semplicità, assolvevano al riscaldamento in maniera magistrale.
Infialarsi sotto le coperte in una gelida sera d’inverno, dopo aver tolto la mónega e la fogàra dal letto, era un piacere difficile da descrivere e ormai irripetibile. Quel letto panciuto era stato preparato tempo prima, infilando la mónega a separare le lenzuola di sotto da quelle di sopra e posando la fogàra sulla banda che ricopriva la parte piana inferiore di quella specie di slittone ellittico di legno.
La fogàra era solitamente un contenitore di ferro ricavato da un elmetto militare, residuato bellico, con applicato un manico fatto spesso da una cana de stciòpo e dei piedini rivettati per tenerla gualiva. In essa venivano messe le braci tolte dalla stua o dal fogolare con la paletta e ricoperte con un po’ di cenere per tegnérle copà dó. La gestione del fuoco serale era finalizzata a questo rito, dato che bisognava star ténti che no vae dò le bronse. La mònega era un argagno ingombrante di legno che veniva interposto fra il lenzuolo inferiore e superiore del letto per ospitare la fogàra e creare una sorta di fornello riscaldante quel piccolo ambiente, che perciò diventava in breve un nido rovente, ma asciutto ed accogliente, capace di sciogliere ogni incrutimènto e propiziare un sonno ristoratore. Il salto di temperatura fra l’ambiente gelido e quel confortevole giaciglio era tale che si fosse inizialmente avvolti e quasi storditi da quel torrido abbraccio, che presto si mitigava trasformandosi in comfort assoluto. Ovviamente bisognava prima estrarre la fogàra e togliere la mónega, altrimenti sarebbero stati dolori. Era buona norma mettere la fogàra fuori dalla porta della camera, per evitare le fatali esalazioni di ossido di carbonio delle braci non ancora spente del tutto; anche se le sfese per la circolazione dell’aria erano talmente tante che il pericolo era relativo. Si scaldava dunque il letto, non la stanza, con quell’economia della necessità che informava ogni azione.
Feci in tempo a sperimentare questo rito, prima che s’imponesse la flassa a fare lo stesso servizio, ma con procedure più semplici e sicure. Sicure si fa per dire, perché le flasse dei nonni erano di metallo e dovevano essere avvolte in un panno per evitare scottature. Poi talvolta spandevano pure, perché le guarnizioni erano rudimentali e riciclate dalle cameredarie delle bici. Biognàva star ténti, ciò, ancamassa!
Finché arrivarono le flasse di gomma, con la superficie molesìna e zigrinata per evitare le scottature. Fulcro delle operazioni rimaneva sempre la fornéla, che in questo caso forniva l’acqua della cassa, invece delle braci. Mentre però la fogàra, qualora il letto fosse occupato da più persone, provvedeva un servizio allargato e piuttosto democratico, la flassa era più esclusiva e privata, dato che riscaldava solo l’area ristretta su cui era posizionata. Perciò bisognava alternarla prima da testa e dopo da pìe, altrimenti la scaldava a tòchi; inoltre durava poco e la mattina te ristciavi de catàrte on bloco fredo in fondo ai pìe. Qualora andasse condivisa era poi un problema: robàrse la flassa era un gioco ricorrente fra fratelli, e chi che perdéa el dorméa giassà.
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