martedì 30 novembre 2021

Murajùni, fora febraro e vecio ano novo..

 

【Gianni Spagnolo © 21M25】

Chissà come appariva San Pietro ai primordi, ossia quando i primi Sanpieroti si stabilirono sotto questa sassàra. Lo sfondo del paese della nostra fanciullezza era proprio il bianco pendio sassoso e spoglio delle Jare, delle Giare o delle Marogne, che dir si voglia, sostenuto dai massici muraglioni in pietra eretti nel primo dopoguerra. Al giorno d’oggi, fortunatamente, quella riva è ormai completamente boscata e fa da piede vegetale del Sojo, che ne guadagna in prospettiva, assieme al paese. Forse i primi abitanti trovarono una situazione simile; magari quella distesa detritica era ancora fresca e il Sojo continuava ad alimentarla periodicamente con crolli e smottamenti. Chissà! 

Scalare i murajùni era la nostra specialità di bociasse, anche perché quei grossi sassi squadrati sovrapposti a secco, garantivano buoni appigli e fessure per essere superati con relativa facilità. Un secondo intervento estese la protezione per mezzo di gabbioni di sassi scatolari in rete metallica.  In seguito all’ultima scarica di sassi dal Sojo, avvenuta nel 1978, vennero infine realizzati i trinceroni attuali e rimboscato il pendio. 

Sopra il terzo muraglione si accendevano i fuochi per “far fora febraro”, ossia la chiamata di marzo per quelli che abitavano in piazza. Era la manifestazione spontanea della gioia che invadeva gli animi della gente costretta a restare chiusa nella case e nelle stalle per almeno quattro mesi. Non appena  il primo tepore primaverile scioglieva la neve che aveva sopito il paese e le sue attività, la preparazione del falò per “far fora febràro” era l’occupazione del risveglio dal letargo dei giovanotti del paese. Tutto ciò che poteva bruciare di un fuoco vivo veniva ammassato sul murajòn e negli altri posti tradizionali delle contra’, dove s’accendeva la competizione su chi faceva il falò più spettacolare. Il combustibile più adatto e tradizionale erano i ciuffi secchi di denévre, che ardevano d’un fuoco vigoroso e scoppiettante, mentre ultimamente si usavano anche i copertoni  in gomma, che producevano vistose volate di fumo nero. Raccogliere i rami di ginepro, russe séche, visùni e sfasciumi vegetali dell’inverno, era anche occupazione della bociaria, che li conferiva volontariamente al falò per guadagnarsi l’accesso a quel rito governato dai giovanotti più grandi. Rito che prevedeva gridare filastrocche tradizionali per suggerire i maritamenti più strampalati e far bàgolo e casòto, avendo come uditorio la gente ammassata in Piazza per l’occasione.

Il falò bruciava l’Inverno e il Male e il paese si apriva alla nuova stagione vegetativa secondo riti ancestrali di rinnovamento e rinascita ricorrenti in tutto l’arco alpino. Solo nei territori appartenuti alla Serenissima Repubblica Veneta si conservavano, assieme agli altri elementi del rito, anche le filastrocche di fidanzamento, vere o scherzose che fossero. Si trattava d’un antico e unico sistema rituale che propiziava l’anno nuovo con inizio ai primi di marzo. Esso prevedeva il fuoco tradizionale e il frastuono, accanto a un’invocazione alla nuova stagione, affinché affretti il suo arrivo e porti un buon raccolto. Venezia conservava il primo marzo come Capodanno ufficiale, secondo il vecchio calendario Giuliano e questo fatto potrebbe dare una spiegazione alla maggior frequenza e persistenza delle feste di marzo in Veneto anziché altrove.





1 commento:

  1. Eh si era proprio una bella lotta trovare denevre e scatoloni e quantaltro che bruciasse e sopratutto nasconderli bene.Altri tempi

    RispondiElimina

Avvisi della settimana

Sabato 1 e domenica 2 febbraio alle porte delle chiese di tutta la valle ci sarà la vendita delle primule a favore del Centro di aiuto alla ...