lunedì 25 ottobre 2021

L'àstico da mudanda

Gianni Spagnolo © 21L17】

Non si sa la data precisa quando il moderno astico risalì l'omonima valle per imporsi velocemente nel nostro abbigliamento di tutti i giorni, ma senz'altro capitò dopo la seconda guerra mondiale. Per la verità l’astico noi ce l’avevamo già da un pezzo, ma non era granché flessibile e non si prestava ad usi così personali. Questo innovativo materiale, lo chiamavamo astico noi, perché in cìcara si diceva elastico, dato che la sua principale caratteristica era appunto quella di essere elastico, cioè di ritornare al suo pristino stato dopo essere stato  allungato e rilasciato. La sua prima comparsa la fece inserito in nastri di tessuto, di varie dimensioni e fogge, per confezionare abiti e corsetteria. Era infatti quello l’utilizzo dove serviva un po’ di confortevole elasticità al posto di fettucce, bottoni, spaghi, pontapeti e strafanti vari prima in uso. Il suo impiego iconico e maggiormente apprezzato avvenne perciò nel confezionamento di calze e mutande, così che il suo nome divenne, manco a dirlo: àstico da mudanda.

A jera ora che la roba no la te sbrissiasse pì do! Che le calse no le rugolasse pì e le mudande a no le balasse altro. Applicare questa innovazione all’abbigliamento tradizionale richiese, come tutte le innovazioni tecnologiche, un po’ di tempo, di pazienza e di adattamento. Le nostre nonne erano use tricotare per confezionare le calze invernali con la lana riciclata e si trovavano a cucirne l’astico da mudanda sul collare, dove bisognava rincalzare la lana e inserire quella moderna fettuccia elastica, magari anca sparagnando na stciantinéla. I problema era come dosare l’elasticità di questo nuovo materiale, unita alla stima sulla durata del capo in relazione al fatto che l’utilizzatore era comunque in fase di accrescimento corporeo; el paràva, per così dire. Il risultato era spesso che la calza nuova aveva l’elastico così stretto da rischiare l’emostasi e l’amputazione dell’arto, per poi slanegarse in pressa e rugolarte dó. Allora bisognava arrotolare un po’ la calza inspessendola fino a raggiungere un adeguato sostegno, in attesa di riparazione con l'astico nuovo. Con le mudande andava meglio, stante la conformazione del bacino, che non aveva l’anda a lóra fa le ganbe. Fatto sta che di quell’innovazione beneficiarono un po' tutti e l’astico da mudanda entrò prepotentemente nell’uso quotidiano.

Con l’intensificarsi della produzione di gomma artificiale, arrivarono poi a ruota due altri articoli utili ed interessanti in questo materiale: gli àstici gialli da cancelleria e quelli grossi e quadrati in caucciù nero. In zona, l’uso di questi nuovi prodotti era principalmente da parte di noi bociasse. I primi erano infatti impiegati per fabbricare il motore dei carrarmati coi rochéi vudi del filo da cusire, mentre i secondi, applicati alle forcelle di orno ben stagionate, servivano per fabbricare le nostre micidiali fionde. Vabbè, queste erano usi impropri da bociamìnti, mentre l’astico da mudanda rivoluzionò la moda e il benessere dell’intera popolazione. Ancamassa, ciò!

A proposito di calze, vorrei sapere chi fu quel sapientone che introdusse l’idea che per misurare le calze della dimensione giusta per un bambino, occorresse avvolgergliele attorno al pugno chiuso. Si doveva chiudere il pugno e avvolgervi intorno il piede della calza: se la punta e il tallone si congiungevano giusto a toccarsi, allora quella era una buona approssimazione per il piede reale. Poi, manco a dirlo, bisognava sempre considerare che il soggetto stava crescendo e perciò era buona regola abbondare. Questo modo di pensare sempre al doman mi ha parecchio condizionato, dato che per tutta la giovinezza mi sono ritrovato ad indossare calze che erano una mezza spanna più lunga del mio piede e a nulla valevano le mie rimostranze sulla palese inadeguatezza di quella ferrea misura, almeno per me. Ma tarè ca a jero mi a ver i pìe desgrassià. 


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