【Gianni Spagnolo © 200202】 |
Belfiore appartiene all'immaginario della mia fanciullezza. Il suo affaccio sull'alta valle dell'Astico, coronata dal poderoso e
suggestivo anfiteatro delle nore del
Cròjere, era infatti perfettamente inquadrato nella finestra della cucina della Gusta, la mia
nonna materna. Proprio dietro a quella specola, lei mi raccontava le
storie de stiàni, ma ero io che la tiravo continuamente
a siménto e non mi stancavo d’ascoltarla.
C’erano ancora quei lunghi e piovosi pomeriggi d’autunno, immersi nel caldo abbraccio
dell'enorme stufa. Ascoltavo seduto in gaja o sulla traballante sedia impagliata, con i gomiti appoggiati sul pódo della finestra. Lo sguardo spaziava su quei pendii, spezzettato dall’intelaiatura azzurrina dell’infisso e filtrato dalle
sottilissime lastre di vetro, increspate dalle venature di fusione. Erano finiti da poco i tempi dei filò, ma c’era
ancora qualche vecchio che contava le storie e qualche bambino che scoltava.
*Lascio volentieri a qualche intervento di moderni casottani la confutazione di questo presupposto o la formulazione di altre ipotesi.
Mi raccontava dunque che proprio da Belefióre
(perché era così che si diceva nel nostro aspro dialetto dalle vocali acute), veniva la mia bisnonna paterna, morta trent’anni
prima. Lei ancora se la ricordava bionda e secca che andava alla fontana col bigòlo. Rimase orfana in tenera età e venne affigliata da una sua zia qui in paese dove abitò poi per il resto della vita.
Su in Belefióre io non c’ero
mai andato, era ancora fuori dal mio raggio d’azione. Dal mio punto d’osservazione
si vedevano solo la nuova grande croce di cemento e i ruderi della chiesetta
di San Rocco. La nonna m’assicurava però che là dedrìo c’era un bel pianoro, con un gruppetto di case che quand’era giovane lei erano ancora abitate. Di là si saliva poi in Luserna
lungo un sentiero trafficato in entrambe le direzioni. A me pareva
strano che i lusernàti scendessero a
far provviste a San Pietro e per quella via, ma d’altra parte mi diceva che
a quel tempo quasi tutti i paesani abili salivano quotidianamente in montagna per la Singéla o per altri sentieri e
i cavalli del Santo d’Assisi erano sempre ben allenati, almeno quanto i muli dei cavalàri.
Questa premessa per dire che a quel posto sono particolarmente
affezionato, ancor più da quando ebbi modo d'andarci e percorrere quei
sentieri. Poi Belfiore è un bel nome, forse il più elegante di tutta
la Valle. Condivide con Bellasio, la contra’ posta sull'opposta strénta dell'Astico, quel prefisso “Bel”
che lo rende accattivante. Inoltre, basta affacciarsi sulla valle da quel bastione per fugare ogni
dubbio sulla sua appropriatezza. Rimane un po’ di perplessità circa l’origine
di quel “fior”, ma certo non c’è misericordia nel paragone col sottostante
toponimo di Casotto.
Tralasciando le fonti orali per quelle scritte, emerge un
particolare interessante: Belfiore e Bellasio sono, guardacaso, fra i toponimi
secondari più antichi della nostra zona, essendo saldamente documentati fin dal
millecinquecento. Condividono quel bel prefisso che suona così bene nella
lingua corrente d’averli esentati da approfondimenti sul suo originale
significato, tanto sembra chiaro e palese.
Ma è proprio così?
La tradizione riconosce in Befiore (o Belfior o Bel-Fior, a seconda
degli autori) il nucleo abitato originario della comunità di Casotto. Il paese nella sua forma attuale si sarebbe infatti sviluppato infatti nei secoli successivi.
Vediamo un po'!
Vediamo un po'!
Il luogo era area di confine fra la contea del Tirolo e la Serenissima
e apparteneva ad Osvald II von Trapp, detto “Il Terribile”, barone di Beseno e
Caldonazzo, signore di Castel Coira, Campburg e Schwanburg, consigliere e
pignorante delle signorie di Glorenza, Malles di Venosta e Val d’Ultimo,
maestro del podere enfiteutico della contea di Tirolo. Fu proprio questo
amabile signore a dare in enfiteusi il maso di Belfior ad un certo Bernardino fu Francesco di Villaverla e al di lui nipote Giovanni Maria, detti abitanti in (.. Astici), con investitura del 1551. Questo sarebbe il primo documento attestante la presenza di un abitato in quest’area ".... posto in loco vocato Casotto alla Torra". Ma come? Se il luogo è già chiamato Casotto mentre Belfiore è definito .. alias inculto riposo et saxoso.. none vero culto.. (quindi apparentemente abbandonato), come la mettiamo?
Chi erano poi questi vicentini, che interessi avevano a Belfiore e perché
abitavano in ... Astici? (probabilmente il testo, molto contratto, intende: S.ti Petri Vallis Astici). Sono domande che m’intrigano e sulle quali sto ancora
indagando. Per il momento mi limito ad una veloce analisi indiziaria alla luce
dei pochi documenti finora rinvenuti.
Si potrebbe pensare che questi villaverlesi fossero massari dei Verlati e/o di altri nobili
feudatari vicentini e che abbiano affittato il monte di Belfiore allo
scopo di monticare il loro bestiame nella stagione estiva. L'ipotesi parte dall'arbitrario* presupposto che a quel maso facessero allora capo anche i pascoli del Cròjere e che quindi il loro interesse si concentrasse su di essi piuttosto che sulle magre coltivazioni di quel pianoro così penosamente descritto. Anche il bestiame di pianura non
adibito al lavoro dei campi doveva infatti essere condotto in montagna per
risparmiare il foraggio per l’inverno e i pascoli privati del Cròjere potevano ben fungere allo scopo. Belfiore all'epoca parrebbe essere dunque disabitata e forse questa investitura è solo la reiterazione di rapporti già in essere da tempo con i vicentini. Dieci anni dopo infatti il maso è descritto in modo più felice, composto da case, stalle e un forno da pane.
Saremmo quindi in presenza di un maso affittato da veneti in un contesto probabilmente ancora cimbro. Come poteva essere chiamato questo luogo dai locali nel
XVI secolo? Forse Bèleshof o Bèlloshof? (maso italiano), poi adattato
ad un più comprensibile Belfior dai foresti? Forse non era "hof" (maso) il suffisso, ma qualche altra voce più assonante con "fior", ma quel "Bel", dato il contesto, qualche interrogativo me lo pone. Dei nostri potenziali compaesani da Villaverla che abitavano a San
Pietro (?) non ho invece trovato traccia in paese nei documenti cinquecenteschi; restiamo perciò nel dubbio.
Riguardo l'etimologia di Casotto, invece, non mi convincono le varie ipotesi che ricorrono. L'idea di "casotto" inteso come ricovero per attrezzi agricoli non mi pare credibile, dato che per questo c’era l’arcaico e intramontabile termine di bàito, ampiamente utilizzato su
tutta la montagna. "Cà sotto", nel senso di case di sotto rispetto a Befiore,
avrebbe significato una progenitura di Belfiore che non darei per scontata. Inoltre nella nostra zona per indicare residenze agricole provvisorie si usa semmai il termine casuni, casotto non mi pare abbia riscontri. Sarei più propenso a ritenere che il termine Casotto derivi da un rastrello confinario, istituito in capo alle Sléche a seguito alla Sentenza Tridentina
del 1535 che fissava definitivamente la frontiera con Venezia sulla Torra (simile ipotesi era peraltro già stata avanzata da Cesare Battisti nel 1898, collocandola però più a valle). Volendo strafare potrebbe essere tirato in ballo anche un equivalente cimbro: Ka(n)-Zoll (alla Dogana), poi venetizzato in Casotto conciliando entrambi i significati (..viil gazòget bor in oarn ;-). Forse fu attorno a quell'edificio, che poteva essere stato inizialmente un semplice
casotto (non casa, non bàito, ma presidio confinario), che si sviluppò l’abitato. Analogamente a quello istituito sulla parte veneta in località Rocchetta; ancora sull'antica Via di Germania dunque, non sul ben posteriore tracciato rivierasco che passava per il ponte dei Bràidi. Considerata la
differenza sostanziale fra la vocazione dei due siti: Belfiore agropastorale e
Casotto militar/commerciale, non è inverosimile che anche i rispettivi primi abitanti abbiano
avuto origini diverse. Il prof. Desiderio Reich, nelle sue annotazioni su Lavarone e dintorni del 1910, cita un documento dell'archivio comunale di Lavarone che farebbe invece risalire il toponimo "Casotto" al nome proprio d'un affittuario della Corte di Caldonazzo attestato in zona già dai primi del millequattrocento. Questo taglierebbe la testa al toro rendendo inutile il rimuginarci ancora attorno; salvo la stranezza di quasi due secoli di mancanza di notizie sui suoi eventuali abitanti.
Intanto pensiamoci!
*Lascio volentieri a qualche intervento di moderni casottani la confutazione di questo presupposto o la formulazione di altre ipotesi.
Bravo Gianni, come al solito del resto. La nota aggiunta è simpatica e mi ricorda Umberto Matino...
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