lunedì 10 febbraio 2020

Non è bello ciò ch'è bello ...

Gianni Spagnolo © 200202
Belfiore appartiene all'immaginario della mia fanciullezza. Il suo affaccio sull'alta valle dell'Astico, coronata dal poderoso e suggestivo anfiteatro delle nore del Cròjere, era infatti perfettamente inquadrato nella finestra della cucina della Gusta, la mia nonna materna. Proprio dietro a quella specola, lei mi raccontava le storie de stiàni, ma ero io che la tiravo continuamente a siménto e non mi stancavo d’ascoltarla. C’erano ancora quei lunghi e piovosi pomeriggi d’autunno, immersi nel caldo abbraccio dell'enorme stufa. Ascoltavo seduto in gaja o sulla traballante sedia impagliata, con i gomiti appoggiati sul pódo della finestra. Lo sguardo spaziava su quei  pendii, spezzettato dall’intelaiatura azzurrina dell’infisso e filtrato dalle sottilissime lastre di vetro, increspate dalle venature di fusione. Erano finiti da poco i tempi dei filò, ma c’era ancora qualche vecchio che contava le storie e qualche bambino che scoltava
Mi raccontava dunque che proprio da Belefióre (perché era così che si diceva nel nostro aspro dialetto dalle vocali acute), veniva la mia bisnonna paterna, morta trent’anni prima. Lei ancora se la ricordava bionda e secca che andava alla fontana col bigòlo. Rimase orfana in tenera età e venne affigliata  da una sua zia qui in paese dove abitò poi per il resto della vita.
Su in Belefióre io non c’ero mai andato, era ancora fuori dal mio raggio d’azione. Dal mio punto d’osservazione si vedevano solo la nuova grande croce di cemento e i ruderi della chiesetta di San Rocco. La nonna m’assicurava però che  dedrìo c’era un bel pianoro, con un gruppetto di case che quand’era giovane lei erano ancora abitate. Di là si saliva poi  in Luserna lungo un sentiero trafficato in entrambe le direzioni. A me pareva strano che i lusernàti scendessero a far provviste a San Pietro e per quella via, ma d’altra parte mi diceva che a quel tempo quasi tutti i paesani abili salivano quotidianamente in montagna per la Singéla o per altri  sentieri e i cavalli del Santo d’Assisi erano sempre ben allenati, almeno quanto i muli dei cavalàri.
Questa premessa per dire che a quel posto sono particolarmente affezionato, ancor più da quando ebbi modo d'andarci e percorrere quei sentieri. Poi Belfiore è un bel nome, forse il più elegante di tutta la Valle. Condivide con Bellasio, la contra’  posta sull'opposta strénta dell'Asticoquel prefisso “Bel” che lo rende accattivante. Inoltre, basta affacciarsi sulla valle da quel bastione per fugare ogni dubbio sulla sua appropriatezza. Rimane un po’ di perplessità circa l’origine di quel “fior”, ma certo non c’è misericordia nel paragone col sottostante toponimo di Casotto. 
Tralasciando le fonti orali per quelle scritte, emerge un particolare interessante: Belfiore e Bellasio sono, guardacaso, fra i toponimi secondari più antichi della nostra zona, essendo saldamente documentati fin dal millecinquecento. Condividono quel bel prefisso che suona così bene nella lingua corrente d’averli esentati da approfondimenti sul suo originale significato, tanto sembra chiaro e palese.
Ma è proprio così?
La tradizione riconosce in Befiore (o Belfior o Bel-Fior, a seconda degli autori) il nucleo abitato originario della comunità di Casotto. Il paese nella sua forma attuale si sarebbe infatti sviluppato infatti nei secoli successivi. 
Vediamo un po'!
Il luogo era area di confine fra la contea del Tirolo e la Serenissima e apparteneva ad Osvald II von Trapp, detto “Il Terribile”, barone di Beseno e Caldonazzo, signore di Castel Coira, Campburg e Schwanburg, consigliere e pignorante delle signorie di Glorenza, Malles di Venosta e Val d’Ultimo, maestro del podere enfiteutico della contea di Tirolo. Fu proprio questo amabile signore  a dare in enfiteusi il maso di Belfior ad un certo Bernardino fu Francesco di Villaverla e al di lui nipote Giovanni Maria, detti abitanti in (.. Astici), con investitura del 1551. Questo sarebbe il primo documento attestante la presenza di un abitato in quest’area ".... posto in loco vocato Casotto alla Torra". Ma come? Se il luogo è già chiamato Casotto mentre Belfiore è definito .. alias inculto riposo et saxoso.. none vero culto.. (quindi apparentemente abbandonato), come  la mettiamo?
Chi erano poi questi vicentini, che interessi avevano a Belfiore e perché abitavano in ... Astici? (probabilmente il testo, molto contratto, intende: S.ti Petri Vallis Astici). Sono domande che m’intrigano e sulle quali sto ancora indagando. Per il momento mi limito ad una veloce analisi indiziaria alla luce dei pochi documenti finora rinvenuti.
Si potrebbe pensare che questi villaverlesi fossero massari dei Verlati e/o di altri nobili  feudatari vicentini e che abbiano affittato il monte di Belfiore allo scopo di monticare il loro bestiame nella stagione estiva. L'ipotesi parte dall'arbitrario* presupposto che a quel maso facessero allora capo anche i pascoli del Cròjere e che quindi il loro interesse si concentrasse su di essi piuttosto che sulle magre coltivazioni di quel pianoro così penosamente descritto. Anche il bestiame di pianura non adibito al lavoro dei campi doveva infatti essere condotto in montagna per risparmiare il foraggio per l’inverno e i pascoli privati del Cròjere potevano ben fungere allo scopo. Belfiore all'epoca parrebbe essere dunque disabitata e forse questa investitura è solo la reiterazione di rapporti già in essere da tempo con i vicentini. Dieci anni dopo infatti il maso è descritto in modo più felice, composto da case, stalle e un forno da pane.
Saremmo quindi in presenza di un maso affittato da veneti in un contesto probabilmente ancora cimbro. Come poteva essere chiamato questo luogo dai locali nel XVI secolo? Forse Bèleshof o Bèlloshof? (maso italiano), poi adattato ad  un più comprensibile Belfior dai foresti? Forse non era "hof" (maso) il suffisso, ma qualche altra voce più assonante con "fior", ma quel "Bel", dato il contesto, qualche interrogativo me lo pone. Dei nostri potenziali compaesani da Villaverla che abitavano a San Pietro (?) non ho invece trovato traccia in paese nei documenti cinquecenteschi; restiamo perciò nel dubbio.
Riguardo l'etimologia di Casotto, invece, non mi convincono le varie ipotesi che ricorrono. L'idea di "casotto" inteso come ricovero per attrezzi agricoli non mi pare credibile, dato che per questo c’era l’arcaico e intramontabile termine di bàito, ampiamente utilizzato su tutta la montagna. "Cà sotto", nel senso di case di sotto rispetto a Befiore, avrebbe significato una progenitura di Belfiore che non darei per scontata. Inoltre nella nostra zona per indicare residenze agricole provvisorie si usa semmai il termine casuni, casotto non mi pare abbia riscontri. Sarei più propenso a ritenere che il termine Casotto derivi da un rastrello confinario, istituito in capo alle Sléche a seguito alla Sentenza Tridentina del 1535 che fissava definitivamente la frontiera con Venezia sulla Torra (simile ipotesi era peraltro già stata avanzata da Cesare Battisti nel 1898, collocandola però più a valle). Volendo strafare potrebbe essere tirato in ballo anche un equivalente cimbro: Ka(n)-Zoll (alla Dogana), poi venetizzato in Casotto conciliando entrambi i significati (..viil gazòget bor in oarn ;-). Forse fu attorno a quell'edificio, che poteva essere stato inizialmente un semplice casotto (non casa, non bàito, ma presidio confinario), che si sviluppò l’abitato. Analogamente a quello istituito sulla parte veneta in località Rocchetta; ancora sull'antica Via di Germania dunque, non sul ben posteriore tracciato rivierasco che passava per il ponte dei Bràidi. Considerata la differenza sostanziale fra la vocazione dei due siti: Belfiore agropastorale e Casotto militar/commerciale, non è inverosimile che anche i rispettivi primi abitanti abbiano avuto origini diverse. Il prof. Desiderio Reich, nelle sue annotazioni su Lavarone e dintorni del 1910, cita un documento dell'archivio comunale di Lavarone che farebbe invece risalire il toponimo "Casotto" al nome proprio d'un affittuario della Corte di Caldonazzo attestato in zona già dai primi del millequattrocento. Questo taglierebbe la testa al toro rendendo inutile il rimuginarci ancora attorno; salvo la stranezza di quasi due secoli di mancanza di notizie sui suoi eventuali abitanti. 
Intanto pensiamoci!

*Lascio volentieri a qualche intervento di moderni casottani la confutazione di questo presupposto o la formulazione di altre ipotesi.

1 commento:

  1. Bravo Gianni, come al solito del resto. La nota aggiunta è simpatica e mi ricorda Umberto Matino...

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