Bologna stazione, ore 15. Visione
caleidoscopica di un Paese in tilt. Freccerosse in ritardo di tre,
quattrocento minuti. Tabelloni elettronici assurdi, che mostrano i treni
delle 10 del mattino ma non quelli in arrivo imminente. Annunci sonori
automatici resi incomprensibili dal frastuono del pubblico posseduto da
un frenetico andirivieni. Nessuna voce autorevole che spieghi cosa
accade e indirizzi i passeggeri. Scale mobili prese d’assalto. Fiumane
che salgono e scendono negli inferi dell’alta velocità. Impossibile
sedersi, alcune donne anziane piangono. Fuori fa freddo, e la sala
d’aspetto è strapiena. E meno male che c’è, oggi che in Italia si paga
anche per la pipì.
La stazione di Bologna è un purgatorio dove
regna un sottomesso silenzio. Nessuno impreca. Comunicazione
interpersonale zero. Tutti sono chini sugli smartphone, ciascuno per
conto suo, separatamente in cerca di vie d’uscita alternative. E
intanto, nei corridoi sotterranei, ecco la visione surreale di cinque
uomini in mimetica che, anziché soccorrere i naufraghi delle “frecce”,
attorniano armati uno straniero di pelle scura che cerca nella giacca
documenti che verosimilmente non ha. Passano dei ragazzi con zaini,
deridono il “clandestino”, e la forza pubblica non reagisce. Mai mi è
apparsa più chiara la funzione del capro espiatorio. In assenza di
soluzioni, serve a sfogare sull’alieno la rabbia della gente.
Vent’anni fa sarebbe stata la rivoluzione. Oggi
niente. Perché? Come mai questo Paese taglieggiato dalle camorre,
desertificato dalla grande distribuzione, saccheggiato dalle banche,
bastonato dalle tasse, espropriato degli spazi pubblici e delle certezze
sindacali, come mai questa Italia derubata del futuro, che va in crisi
per una nevicata, che si lascia togliere persino la libertà democratica
delle preferenze elettorali, che vede i suoi figli sedati fin da piccoli
dalle playstation e poi costretti, da grandi, a emigrare per sfamarsi,
magari facendo i camerieri con una laurea in tasca, come mai un Paese
simile, anziché fare la rivoluzione, diventa razzista?
La risposta è di un’ovvietà elementare. Esiste
un legame strettissimo tra la nullità di una classe dirigente e il
rialzarsi della tensione etnica. Quando i reggitori non sanno dare
risposte alla gente, le offrono nemici. Funziona sempre, perché l’uomo
nero da detestare abita in ciascuno di noi. I media lo sanno, e ci
campano. I social figurarsi. Accusare il “forestiero” impedisce di
pensare ai nemici interni e assolve la comunità “autoctona”
dall’obbligo morale di interrogarsi sui propri errori. È così da secoli.
La dissoluzione della Jugoslavia insegna. Dopo aver saccheggiato il
paese, la dirigenza post-comunista, per non pagare il conto, ha
scagliato serbi contro croati e quel che segue. Ammazzatevi tra voi,
pezzi di imbecilli.
Che c’entra la Jugoslavia? C’entra eccome. È
stata il primo segno di una malattia che oggi sta contagiando l’Unione
europea e si chiama balcanizzazione. Che significa: trasferimento sul
piano etnico di una tensione politica e sociale che altrimenti
spazzerebbe via i responsabili della crisi, i ladri e i loro cortigiani.
Lo sta facendo Erdogan, evocando nemici a destra e a manca. Lo ha fatto
Trump per spuntarla alle elezioni. Lo ha fatto Theresa May che ora non
sa come gestire il risultato — Brexit — di un voto da cui non pensava di
uscire vittoriosa. Lo fanno i Catalani chiedendo di separarsi da
Madrid. Gli vanno dietro i populisti austriaci pianificando reticolati
al Brennero. Per non parlare dei belgi di lingua olandese e francese che
si guardano a muso duro sotto le vetrate del palazzo dell’Ue a
Bruxelles. Impotenza, mascherata di patriottismo.
Viviamo un momento drammaticamente complesso
segnato dal tema immigrazione. Ne siamo sommersi e non sappiamo come
gestirla. Non lo sanno nemmeno quelli che l’hanno messa in moto per
avere lavoratori a basso costo. Volevano manodopera, e invece gli hanno
mandato degli uomini. Non era previsto. Uomini che fanno figli e cercano
la felicità. E allora ecco la pensata: trasformare l’immigrato in
parafulmine, per farla franca. Farne un tema elettorale, semplificare la
complessità, depistare la tensione su altri obiettivi, speculare sul
naturale spaesamento e le nostalgie identitarie dei più deboli in una
società globale che emargina ed esclude. Chi fomenta odio razziale, con o
senza il rosario, non si limita a evocare tragici fantasmi di ieri, ma è
anche complice dei ladri che costringono i nostri figli a emigrare. Li
copre. Con la pressione etnica aiuta i caporali ad abbassare il costo
del lavoro e l’economia illegale a campare di schiavi nei campi di
pomodori. È così ovvio, benedetto Iddio. Ma allora perché i cosiddetti
democratici, salvo poche eccezioni, non ne parlano? Per paura dei
sondaggi? Per non andare contro il senso comune di una minoranza
urlante?
Un giorno, presto o tardi, vi sarà imputato di
avere taciuto. Perché anche dalla vostra pusillanimità discende l’osceno
silenzio che nei treni e sugli autobus avvolge e lascia impunito chi,
in questa vigilia elettorale, tuona contro l’uomo nero. È questo
silenzio che ferisce e offende, più ancora del razzismo. Eppure sarebbe
così facile svelare il trucco; dire che, un secolo fa, dicevano di noi
italiani in America le stesse cose che oggi noi diciamo dei forestieri
in Italia. E cioè che fanno troppi figli, rubano il lavoro alla gente,
portano criminalità e malattie. Per mio nonno è stato così, a otto anni
ha attraversato l’oceano da solo, per fame. Minore non accompagnato.
Varrebbe la pena ricordarlo. Anche perché sono le stesse cose che,
forse, altri Paesi diranno, domani, dei nostri figli.
La storia è un eterno ricominciamento diceva un celebre storico Greco 4 secoli prima di JC.
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