Hanno fatto il primo prelievo. Gli scienziati siriani, a causa dei
danni prodotti dalla guerra alla banca dei semi di Aleppo, hanno richiesto alla Banca dei semi più fredda e protetta del mondo, quella delle ISOLE SVALBARD,
di consegnare loro un campione di semi di grano, orzo e altre piante di
interesse agroalimentare per rimettere in sesto la propria collezione e
per poterle conservare anche nei paesi vicini, come il Libano. Raramente, quando pensiamo alla guerra, ci rendiamo conto che può compromettere anche la sicurezza alimentare futura di un paese.
La banca delle Svalbard, gestita dal Crop Trust e finanziata da molti paesi, è nata proprio per questo, come una sorta di assicurazione sulla vita dell’umanità.
E difatti si è guadagnata molti nomi diversi: da Arca di Noé a banca
della catastrofe. Nei fatti è un vero e proprio deposito sotterraneo,
tra i ghiacci polari vicino a Longyearbyen, in Norvegia, nell’arcipelago
artico delle isole Svalbard a circa 1200 km dal Polo Nord.
Qui
sono conservati oltre 890.000 semi, più di 4000 specie diverse, e altro
materiale utile per rimettere in produzione piante di interesse
alimentare.
Uno sforzo globale enorme, anche molto costoso, che
è stato per questo spesso criticato, ma che a pochi anni dall’inizio
delle attività si dimostra già utile, restituendo alla comunità siriana e
ai paesi vicini le proprie varietà locali.
Come sono nate le banche dei semi agricoli?
La storia siriana ha per la verità altri precedenti, di cui uno
particolarmente illustre. Facciamo un salto indietro nel tempo, al 1941.
Sotto assedio è la città di San Pietroburgo. L’esercito tedesco fuori,
la cittadinanza dentro. Vengono messi in sicurezza i quadri e i beni
artistici dell’Hermitage. Ma poco lontano ci sono altri beni che un
gruppetto di ricercatori tiene gelosamente nascosti e conservati, anche a
scapito delle proprie vite. Sono i semi della banca dell’Institute of
Plant Industry fondata da Nikolaj Vavilov, il genetista che a buon titolo può essere considerato proprio l’iniziatore, l’inventore delle banche dei semi.
Vavilov, nei vent’anni di intensa attività scientifica che lo vedono
protagonista, ha compiuto più di 75 missioni in diversi luoghi della
terra, raccogliendo incessantemente semi ed esemplari di piante. Ha
anche messo in piedi un sistema per cui i russi emigrati in giro per il
mondo, dagli Stati Uniti all’Europa ai paesi asiatici ed africani,
mandano in patria esemplari di piante locali e semi, tanti semi. La
banca di semi del VIR, l’Istituto dlle risorse genetiche vegetali,
come si chiama oggi prendendo il nome dal suo fondatore, arriva a
raccogliere, organizzare, catalogare e conservare, nei primi anni ‘30,
oltre 250mila varietà di semi. Ancora oggi, con oltre 350mila accessioni, è una delle più importanti al mondo, superata solo da quelle americane e cinesi. E da quella delle Isole Svalbard, la banca di tutti i semi del mondo.
Vavilov purtroppo ebbe davvero poca fortuna: il suo rigore scientifico si scontrò con il desiderio di Trofim Lysenko,
giardiniere e cultore delle pratiche agrarie molto abile ed esperto
nello sperimentare incroci e tecniche di coltivazione, di compiacere
Stalin. E finì dunque, dopo una lunga serie di scontri e di dispute
scientifiche sulla possibilità o meno di risolvere in breve tempo il
problema delle carestie sovietiche, nelle carceri del dittatore dove
morì, di fame, nel 1943.
La raccolta sistematica, la
classificazione, la conservazione e la rigenerazione dei semi sono
diventate invece pratiche diffuse, in molti paesi del mondo.
Indipendentemente dall’ambiente di origine, nelle banche i semi vengono
conservati, seguendo il metodo ex situ, tutti allo stesso modo.
Esistono dunque protocolli molto specifici per garantire che il
materiale raccolto possa tornare in campo, se necessario, anche molti
anni dopo e dare vita a nuove coltivazioni.
Come funzionano le banche dei semi?
I semi arrivano alle banche direttamente dai campi: da aziende sperimentali, da aziende produttive che fanno parte di reti attive sui territori nazionali, dai breeders,
e cioè da coloro che incrociano le specie in campo per produrre nuove
varietà. Ma anche da ricercatori che attivamente, come ai tempi di
Vavilov anche se in modi meno avventurosi, vanno in missione nelle zone
del mondo dove è noto che la biodiversità di piante selvatiche è molto
alta. Come Vavilov aveva intuito, infatti, le piante coltivate
provengono da luoghi ben precisi, i cosiddetti Centri di origine e
diversificazione delle specie. Si tratta di regioni del mondo ad
altissimo tasso di biodiversità dove si trovano numerose piante
selvatiche di una stessa specie o di specie affini a quelle che, nei
millenni, sono state addomesticate e coltivate. Le piante coltivate
provengono infatti da incroci, adattamenti, evoluzioni delle piante
selvatiche sotto diverse forme di pressione ambientale, prima fra tutte
l’azione umana. L’agricoltura è sostanzialmente una forma molto specifica di addestramento:
si selezionano varietà adatte ai diversi ambienti e agli usi previsti
partendo da un ampio pool di risorse genetiche, semi e altre parti di
pianta, e incrociando, selezionando, provando diverse condizioni di
coltura.
Una volta che i semi arrivano alla banca vengono puliti, conteggiati e
pesati. E poi inizia il processo di conservazione vero e proprio. I
semi vengono disidratati e messi sotto vuoto in bustine o contenitori
che servono a evitarne l’ammuffimento e a garantire una buona vitalità
anche se conservati a lungo termine.
Come si conservano i semi?
A questo punto i semi di solito vengono divisi in lotti diversi che seguono destini differenziati:
una parte finisce nella collezione a lungo termine. Questi pacchettini
dunque vengono ordinatamente riposti in scatole o contenitori in
freezer. Ci sono banche che hanno freezer operativi a -20°C e altre che
arrivano, con apparecchiature più potenti o vere e proprie stanze
dedicate, a -80°C. Questa collezione è quella da non toccare
sostanzialmente mai più. Serve a dare la garanzia a lungo termine. Oggi,
molte banche dei semi hanno la propria collezione a lungo termine ma
inviano anche una copia degli stessi semi alle Svalbard. Come
fortunatamente aveva fatto la banca di Aleppo, garantendosi così un
fondo di sicurezza in caso di danno, come effettivamente è avvenuto.
Nella mappa sottostante sono evidenziate le principali banche di semi
nel mondo, con indicazione del numero di accessioni.
Un’altra parte dei semi disidratati e confezionati diventa invece quella che è internazionalmente nota come la working collection.
Una collezione da lavoro, cui si può attingere per fare ricerca, per
selezionare nuove varietà in campo se ce n’è bisogno, per ridare semi a
comunità locali che sono state vittime di disastri ambientali o
carestie, e via dicendo. La working collection è anche quella che permette di studiare meglio le piante conservate,
di verificare per esempio, riseminando a intervalli regolari di tempo,
qual è la vitalità dei semi conservati, quando si riduce, quali sono le
migliori condizioni di recupero. La collezione a breve termine,
sostanzialmente, è uno strumento di lavoro, ricerca e di monitoraggio
della validità del metodo di conservazione.
Presso le banche dunque ci sono anche laboratori di germinazione,
dove si fanno le prove di germinazione dei semi su piccole piastre con
diverse sostanze nutritive, e dove si controllano anche i fattori che
possono indurre i semi a rovinarsi, a essere meno attivi o a modificare
il proprio comportamento durante la conservazione. Nei laboratori delle
banche si fanno anche altre prove, per confrontare ad esempio la
capacità di riproduzione di una pianta via seme o attraverso la messa in
coltura di altri materiali, come le talee.
Il sistema di conservazione delle banche è un sistema statico ed è,
nei fatti, indipendente dall’ambiente. Il processo è ormai
standardizzato e c’è un certo grado di collaborazione e di scambio dei
materiali conservati. Grazie alle banche volute dalla FAO, negli anni
‘70 e ‘80, è possibile oggi recuperare molte varietà locali che, nei
periodi di massima accelerazione dell’agricoltura di stampo industriale,
sono state accantonate e non più coltivate per diversi motivi.
Collezioni una volta ritenute di interesse locale, quasi percepite come
un costo inutile e un sovraccarico difficile da giustificare si sono
rivelate, negli ultimi anni, preziose per il recupero di tante varietà
locali cadute nel dimenticatoio. Così è tornato nei campi il farro, così
sono tornate molte varietà di grano e di mais del tutto abbandonate per
decenni. Dando vita a nuove filiere di prodotti non adatti al ciclo
delle trasformazioni industriali ma interessanti per un consumo più
locale e per una distribuzione più diretta, attraverso mercati e gruppi
di acquisto o negozi specializzati. Un fenomeno in forte crescita non
solo in Italia, anche se il nostro paese è forse uno dei più attivi in
questo settore.
A che cosa servono?
La banca dei semi, da sola, è però uno strumento spuntato. Il modello
proposto da Vavilov, l’accoppiamento tra banca e stazione sperimentale,
rimane quello vincente. Perché è solo rimettendo le piante in campo che si possono davvero valutare gli impatti dei diversi fattori ambientali sulla produzione.
Un modello interessante che sta dando ottimi risultati, soprattutto in
territori dove è difficile attuare in modo proficuo la filiera
agro-industriale, è oggi quello del miglioramento genetico
partecipativo. Le collezioni tornano in campo ma nei campi veri, in
quelli degli agricoltori disposti a collaborare con i ricercatori e gli
agronomi dedicando una parte della propria terra a sperimentare e
valutare, insieme, quali semi siano più adatti nelle diverse realtà
climatiche, di suolo e di cultura.
In qualche realtà locale, in Etiopia come in Francia, si sono anche
sperimentate interessanti forme di banche dei semi di comunità,
costruite, mantenute e gestite da reti di agricoltori. In questo caso i
semi non sono conservati in freezer in bustine sigillate, ma in sacchi o
contenitori in un deposito comune. In questo caso lo scopo è quello di
garantire, ai membri della comunità, l’accesso a una certa quantità di
semi per l’anno successivo in caso di disastro ambientale, carestia,
pessimo raccolto o, più semplicemente, quando c’è la voglia e il
desiderio di cambiare indirizzo produttivo o di sperimentare colture e
semi diversi. Un circolo virtuoso per cui i custodi dei semi sono in
primo luogo i contadini, insieme e in sinergia con i ricercatori e le
Università.
Rimanendo nella metafora del sistema bancario, potremmo dire dunque
che il microcredito, anche in questo caso, come già dimostrato nel
settore economico dal premio Nobel Muhammad Yunus
è in grado di fornire a chi vive in situazioni marginali o a chi
sceglie una agricoltura a basso di investimento, opportunità di sviluppo
interessanti e accessibili.
2° MMS, co tuti i semi che ghé a sto mondo, no bastaria gnanca el deserto del Sahara par fargheli star tuti.
RispondiEliminaaparentementemente, xe un semi-problema, Don.
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