In quell’ultimo scampolo di anni sessanta, il progresso s’era ormai
intrufolato anche nei più remoti anfratti dei nostri paesi; pur ben più
languidamente di quanto non fece nella Pedemontana. La coltivazione della terra
era ormai occupazione per vecchi e il bestiame di famiglia aveva già preso
mestamente la via del macello. La televisione entrava in molte case, così come
la lavatrice e il frigorifero. Le abitazioni venivano rimodernate e rese più
confortevoli ed igieniche. Si demolivano velocemente i cessi in cao ai luamàri e
pure questi ultimi, venendo a mancare il materiale di riempimento e servendo
parcheggi per la nuova mobilità. Le vecchie sedie di paglia bruciavano
scoppiettando nella stufa per far posto a quelle rumorose e asettiche di
acciaio cromato e fòrmica. Alcuni pionieri installavano addirittura il riscaldamento
centralizzato e tacàvano a
parlare in italiano.
I segni d'una civiltà antica, modesta e sedimentata, si dissolvevano con fugace imbarazzo per far posto all’incipiente civiltà dei consumi.
In alcune persone più anziane o ai margini di questa ventata di
progresso, persistevano tuttavia abitudini e stili di vita legati al passato e
che diventavano vieppiù eccentrici. A loro la modernità scivolava addosso come
la pioggia sui coppi e non si davano pena d’intercettarla, continuando
a vivere alla loro maniera.
I vecchi d’allora erano generalmente burberi, scontrosi e anaffettivi; niente a che vedere con l’icona del nonnetto simpatico e mattacchione del mito del buon tempo antico, co se piantàva i fasùi col pico.
Salve le debite eccezioni, facevano di tutto per rendersi antipatici, per provarti, per metterti in difficoltà, per ostacolarti. Almeno a noi bociarìa.
Sembrava proprio che odiassero i bambini, i loro giochi, i loro
schiamazzi, in pratica tutto ciò che era divertimento e futilità. L’unica cosa
che apprezzavano era quella che tornava utile, che aveva sentimento, che
costava fatica. Con queste premesse era del tutto naturale che i rapporti fra noi
si tenessero sempre sul piano di una controllata belligeranza.
Capii più tardi le ragioni di questi comportamenti. La durezza
della vita e la rigida educazione al dovere li avevano addestrati fin da
piccoli ad arrangiarsi, a faticare, a non aspettarsi niente, a non dissipare il
tempo e le cose inutilmente. L’anaffettività poi, non era nient'altro che un primordiale meccanismo di difesa; retaggio dei tempi in cui vedere tanti figli morire
giovanissimi o partire appena adolescenti sulle vie dell’emigrazione (per tacere di altre dolorose circostanze), era
esperienza comune e la depressione e lo scoramento un lusso che non si potevano permettere.
Parecchi erano i veci che i tabacàva, cioè
fiutavano tabacco. Non che trascurassero Bacco, per carità, ma per ora soffermiamoci sulle sostanze solide. Più precisamente i veci i fumava
e i cicàva, cioè fumavano e masticavano tabacco, mentre erano più
le veciòte che preferivano tabacàre (anche
se alcune fumavano de scondòn e
ci davano una palanca di
mancia per mandarci a comprare il necessario all’Apalto).
Nella scarsèla degli
ampi grenbiai,
che facevano provincia, c’era sempre posto per la scatoletta del tabacco da
fiuto e per il fazzoletto da naso dalle sfumature più incredibili. Chi tabacàva compulsivamente
era poi facilmente riconoscibile dal naso grosso, tutto roàn e
costantemente col pavèro.
Il rito del tabacàre affascinava
noi boce,
che lo imitavamo utilizzando il fierumine, ma ovviamente evitando di
aspirarlo. Consisteva nell’inarcare il pollice in modo da creare un incavo fra
i due tendini che lo collegano al polso e lì versare una presa di tabacco da
fiuto dalla magica scatolina rotonda di latta col foro laterale, che si apriva
ruotando il coperchio. Quindi si portava la mano ad una narice, chiudendo l'altra con l'indice sinistro e si aspirava rumorosamente spingendo poi l’avambraccio verso l’alto con una veloce
rotazione a sigillo dell’operazione.
C’erano diversi tipo di tabacco da fiuto: il normale, il mentolato, oppure quello alla cannella o al limone per i più sofisticati.
A noi boce bastava
aver provato a respirare quello mentolato per farci passare ogni
velleità di proseguire in questo vizio.
L’irritazione delle mucose che provocava il tabaco da snifo comportava
che gli utilizzatori avessero sempre a portata di mano un fazzolettone da naso,
che assumeva in brevissimo tempo un colorito brunastro punteggiato da grumi di tabacco
rappreso. La sensibilità moderna ci fa storcere il naso (è proprio il caso di
dirlo) e immagino la faccia schifata di parecchi lettori.
A pensarci bene non è tuttavia molto diverso da quanto non facciano oggi
stimati e famosi personaggi, con polverine ben più eccitanti ed esclusive,
nella privacy dei loro studi o uffici.
L’uso del tabacco da fiuto era ritenuto efficace per la cura dei disturbi respiratori, del mal di testa e di denti e di altri accidenti, perciò non era oggetto di particolare riprovazione. Qualcuno però ci andava giù di brutto e la sua faccia assumeva ben presto i connotati caratteristici del vecio tabacòn.
Per contenere l’irritazione sulle mucose del naso e della gola, i tabacùni facevano
largo uso di mentine di vari gusti, che si compravano per poche lire da Narciso
o dalle Polache. Da quelle colorate e minuscole, le siliéte, a
quelle brune alla liquirizia, per finire alle più comuni bianche alla menta.
Inutile dire che questo era l’aspetto della faccenda che più
interessava noi bocéte, cioè
riuscire a carpire la benevolenza del tabagista per estorcere qualche mentina.
Gianni Spagnolo
19/04/2018
19/04/2018
- Bocia, bocèta, bociassa: Genericamente fanciullo, ragazzo.
- In cao ai luamàri: Da cao, apice, estremità. In testa, o nell'angolo dei letamai.
- Sentimento: Cura, attenzione, scrupolosità.
- Palanca: Soldo di metallo, ultimamente identificava le 100 lire.
- Pavèro: Lucignolo, stoppino, ma per estensione metaforica anche il naso che cola.
- Snifo: Fiuto, da snifare: odorare, fiutare.
- Roàn: Colore rossastro tendente al vinaccia.
- Grenbiale o gronbiale: Grembiule ad una tasca da allacciare in vita.
- Saliso o saìso: Acciottolato, selciato di ciottoli.
- Sgnarocà: Sporco, intriso di sgnaroco, ovvero di muco nasale.
Ciao Gianni grazie per farci retrocedere nel tempo con i tuoi favolosi racconti!!!Leggendo il profilo della Maria Fucari mi sono ricordata di un altro caratteristico personaggio: la MORA che gestiva l'osteria in cima alla pontara.La tua mamma se la ricorda??
RispondiEliminaCerto Alice che se la ricorda! Pensa che Mamma era terrorizzata da suo marito (el Baga) che aveva le pompe funebri (prima di mio suocero) e durante le esequie indossava una divisa particolare nera e gialla, pantaloni, mantellina e berretto. E sempre in tinta aveva anche un drappo che metteva sopra al cavallo che trainava il biroccio con la salma. Il parcheggio di questo biroccio era nel pezzettino di terra alla Cappella fra la Val dell'Orco e la stradina della fontanella.
EliminaQueste righe..e le altre meritano di essere scritte in un libro.
RispondiEliminaVedi Alice, a Gianni è rimasta impressa la Maria fúcari, a me invece "Rico furlán" (suo cognato) che noi bambini lo vedevavamo sempre volentieri quando passava tutti i giorni per i Checa. Dispensatore pure lui di mentine quadrate colorate... Spero che abbia contribuito a rafforzare le nostre difese immunitarie... ;-)
RispondiEliminail primo scopo del grembiule della nonna era di proteggere i vestiti sotto ,ma inoltre: Serviva da guanto per ritirare la padella bruciante dal forno;era meraviglioso per asciugare le lacrime dei bambini, ed in certe occasioni per pulire le faccine sporche;dal pollaio ,il grembiule serviva a trasportare le uova e , talvolta i pulcini.
RispondiEliminaquando i visitatori arrivavano,il grembiule serviva a proteggere i bambini timidi; quando faceva freddo la Nonna si imbacuccava le braccia; questo vecchio grembiule faceva da soffietto per ravvivare il fuoco:Era lui che trasportava le patate e la legna in cucina.
dall'orto serviva al trasporto di molti ortaggi .E a fine stagione ,esso era utilizzato a raccogliere le mele cadute .
quando era ora di servire i pasti la Nonna andava sulla scala ad agitare il suo grembiule e gli uomini sui campi sapevano che dovevano andare a tavola.
La nonna utilizzava anche per posare la torta sul davanzale appena uscita dal forno.
In ricordo delle nostre Nonne.
Rico Furlan era un vecchietto piccolo e dal passo svelto. Quasi ogni giorno faceva la sua camminatina fino al cinema, dove c'era una panchina. Si sedeva lì, guardava le rive, le montagne, in compagnia di ricordi lontani, nella solitudine e nel silenzio. Gli bastava un po' di sole e la parola amica di qualcuno di passaggio. Vite semplici di una volta! E poi si chiudevano come un fiore al tramonto, come una foglia d'autunno.
RispondiEliminaANONIMO
Bellissimo racconto. Grazie Gianni. Ricordi lontani.
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