mercoledì 3 novembre 2021

El caselo

 

【Gianni Spagnolo © 21L29】

Per ben tre generazioni di sanpieroti, il caselo rappresentò un solido punto di riferimento. Sia perché c’erano bestie da latte quasi in ogni famiglia e comunque perché forniva prodotti caseari fatti come si deve. Noi non avevamo vacche e perciò, per un periodo, fu compito mio recarmi ogni pomeriggio col brentélo a tór la late al caselo per i bisogni di famiglia. Il latte era sicuramente fresco, anzi, appena munto; tuttavia bisognava bollirlo prima del consumo, giacché il processo di pastorizzazione era ancora di là da venire. Nell’attesa di essere servito, osservavo curioso i gesti consueti e ripetitivi di chi entrava con sece e brenti, bujava il contenuto in un grande contenitore a balansa sovrastato da un tamiso belo fin, che bloccava eventuali impurità. 

Quindi il casaro, in cerata bianca, stivali d’ordinanza e màneghe fate su, controllava il latte conferito, lo pesava e ne annotava la quantità su un libretto grigio dalla copertina solitamente bisonta che restituiva al portatore. Era ancora tutto biologico e a chilometri massimo uno, tuttavia qualcuno che faceva il furbo c’era. A volte il tamiso bloccava le fregole de pan che qualche bocia di famiglia aveva pensato bene di pociare nella bianca bevanda, facendo merendina de scondòn. Altre capitava che inavvertitamente il brento fosse stato esposto alla pioggia senza chiudere il coperchio. Nello stanzone aleggiava pervasivo quel sentore caseoso misto alla resina bruciata delle legne soto la caliera e al fumo che anneriva i locali. Cremose folate di burro appena fatto si mescolavano a quelle acri degli scori. Per lunghi anni fu casaro del paese mio prozio Toni Garbato (Antonio Gianesini), che in stagione operava in malga a Camprosà.

Il Casello Turnario era il luogo dove, a rotazione, ciascun associato riceveva i vari prodotti ricavati dalla lavorazione del latte, in proporzione alla quantità di materia prima  conferita. Formaggio, burro e ricotta erano infatti indispensabili per il sostentamento della famiglia, sia come alimentazione che come introito dalla loro vendita. Questi caselli si diffusero capillarmente nelle nostre zone a partire dalla fine del 1800, tanto da servire anche le contrade più periferiche, purché avessero un sufficiente numero di capi da latte. Queste strutture svolgevano un’importante funzione economica e sociale a beneficio delle piccole comunità e apportarono un'autentica rivoluzione qualitativa nei prodotti caseari. Fino ad allora infatti, ogni famiglia lavorava in casa il proprio latte, producendo delle “casate” che si può immaginare che qualità e costanza di sapore avessero. Per tacere dell’igiene connesso a stalle minuscole e insalubri che certo non aiutavano ad ottenere un latte organoletticamente idoneo alla stagionatura. Anche gli strumenti di lavorazione erano approssimativi, essendo i medesimi della cucina di tutti i giorni. Fortunatamente veniva in aiuto il fumo dei fogolari, che col processo di affumicazione copriva i sapori e consentiva di conservare comunque anche le forme meno riuscite. Non stupisce dunque che qualche anziano affermasse che: El formajo bon a go tacà a magnarlo solo coj ga verto el caselo. 

Il Caselo nasceva perciò come consorzio dei produttori di latte che costruiva un fabbricato idoneo alla produzione, condotto da un casaro esperto. Questi doveva essere capace di adottare le corrette procedure di caseificazione, curare l’igiene degli ambienti, la qualità della materia prima e dei prodotti, nonché e sovrintendere alla correttezza e all’equità nelle pratiche di conferimento e ripartizione dei prodotti finiti. 

A San Pietro il  Casello Turnario iniziò a produrre nel 1885 e cessò l’attività alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, cedendo il passo all’incalzare dell’industrializzazione. I prodotti caseari tradizionali stagionati furono di lì in poi prodotti con processi semi-industriali, mentre quelli freschi divennero il prodotto di punta dell’industria alimentare che inondò il mercato di prodotti confezionati.

Per molto tempo lo stabile del Caselo, già deperito dall’età, rimase un muto e cadente testimone del tempo che fu. A ciò lo condannava il suo essere dall’origine opera consortile “de tanti parùni”, i quali potevano vantare ciascuno i loro legittimi diritti, ma inevitabilmente diventava improbo riuscire a metterli d’accordo tutti su un progetto comune. Tanto più che dagli iniziali soci, erano passate ben tre generazioni, con il relativo proliferare degli  “aventi diritto”. Divenne così il rifugio preferito dei salvanei, dato che era rimasto l'ultimo relitto legato un po' al loro mondo ormai scomparso. Fu durante uno dei soliti scherzi, che  finirono per appiccargli il fuoco per sbaglio, danneggiandolo gravemente senza però distruggerlo. Non era però un bel vedere il caselo annerito dalle volute di fumo uscite dalle aperture, con gli interni devastati dal fuoco; così l'abbattimento della struttura diventò una priorità superando anche le ultime reticenze.

Finalmente venne abbattuto, ricavando nell’area un parcheggio al servizio della via. Il Caselo usciva così mestamente di scena, ma non dai ricordi paesani, tant’è che nel 2018 un comitato di volonterosi si prese in carico l’impegno di  dedicargli, per così dire, un monumento proprio nell’area che aveva liberato.  Lo spunto venne a Gino Sartori e Claudio Guglielmi a margine della Cheese Bra, la biennale dedicata alle forme del latte. È così che oggi possiamo ammirare nell’angolo verso le Polache, sotto una rustica tettoia, l’artistica, fedele ed iconica riproduzione in legno di cedro della caliera sospesa sulla mussa. La suggestiva opera è stata eseguita dal bravo scultore locale Giampaolo Alessi coadiuvato dagli Alpini nell’allestimento del sito. Recentemente quello slargo ha iniziato a rivestire un po’ la funzione di piazzetta decentrata per l’organizzazione di eventi, complice il suo trovarsi fra gli unici due bar rimasti in attività.


Far formajo

El formajo i lo fava al caselo, andò chj soci i portava la late con cuél chj ghéa: sici o brenti, a man, col bìgòlo, o anca col caretèlo, par chj che ghéva pì bestie. Live i tegnéa anca le pesse a stajonare.

Pena finìo de mòndare, matina e sera, la late la vegnéa portà al caselo e bujà intela misura. La pesata  la vegnéa notà sula lavagnéta sul muro rente al nome del socio. Dopo el casaro el garìa bio da segnarla intel libròn dela contabilità.  El la notava anca sul libreto de cuél che lo portava, par ricevuta.

La late dela sera la vegnéa messa intele mestèle, na sorta de tinassi bassi e grande,  andò che de note vegnéa parsora la pana. La matina drìo la jera tolta su cola spanarola e trata intel burcio, na sorta de botesela co na manovela in parte par pararla torno.  Se ghéa da pararla torno da meda ora a una, par rivare a fare sortire el butièro. Par far pulito sta operassiòn, parò, la pana la ghéva da essare a no pì de 12 gradi e lora el casaro el la sajava col deo, dontandoghe giasso se ocorea. Lora, la late spanà la nava bujà intela caliera picà via sula mussa, che drio la vegnéa  urtà sora el fogo. Lora, se ghéa da parar torno la late cola risola, on baston de legno co in cao na sorta de gabiéta tonda. Cussita se spetava chela se scaldasse a 28 gradi. A sto ponto, i ghe dontava el cajo, na nosa de cajo pressopoco ogni sento litri de late. El cajo i lo cavava dal stomego dj vedelìti, sugandolo sul fogolare e dopo schissandolo pulito. Da ultima i lo misssiava ben co l’aseo, metendolo rento a  bussoloti de legno. Tornando ala caliera sula mussa, i lassava a repossare la late spostandola fora dal fogo. In cao a tri quarti de ora la late s’incajava tuta e la deventava ponto cajà. 

Lora i tajava la cajà jutandose col triso e la chitara, sbrisolandola tuta in tochetéi piculìti fa i granìti de riso. Drio i voltava la mussa danovo sul fogo e i scaldava la cajà fin a 35 gradi, pociandoghe rento el termometro e parandola torno co la risola fin che no la deventava tuto on balòco bianco de formajo, dito musso. Lora el musso el vegnéa tajà su, cavà fora a mosegoti grossi dala caliera e trato intele fassare par darghe la forma ale pesse. Fato cuesto, le pesse le vegnéa messe a scolare sul parsoro, par sugarse. Da ultima biognava smirare le pesse co la sale e onfegarle de ojo par dopo portarle intel stansòn in fondo a stajonare,  podandole una tacà l’altra sulle scansie de legno e segnandoghe sora el numero del socio paròn dela pessa e el di de pareciamento. Coi scori restà intela caliera, e magari dontandoghe na stciantinela de late,  se fava la puìna. Se cusinava cuéla paceca fin a 90 gradi, de modo che vegnesse parsora  la fioreta, chj la tirava fora cola sbiumaróla e i la metéa  a scolare schissandola intele scuéle de legno sbusà.  El bró che restava in caliera el jera tuto scoro e i ghe lo dava ai mastci.


5 commenti:

  1. Grazie Gianni, una bella descrizione; io non ricordo nulla del caselo, forse perché eravamo lontani e non avevamo animali da stalla.

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  2. Ho ancora tutto davanti agli occhi Gianni, compreso el Fusto....

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  3. Nottetempo si autoincendiò!

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  4. Avevo messo un commento di ricordi ma non so perchè non viene pubblicato.

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