【Gianni Spagnolo © 21M2】
Chi percorre le ferrate degli Anelli delle Anguane, arrampicandosi sul Sojo lungo quei tracciati, si domanderà magari cosa c'entrino le Anguane con quelle arse e calcaree pareti. Le anguane, si sa, sono ninfe delle acque e delle sorgenti e si sarebbero trovate fuori luogo in quell'asciutta Scafa che è la loro sede ancestrale.
L'apparenza tuttavia inganna: negli inghiottitoi carsici del Sojo fluivano acque che nessuno, se non loro, conoscevano. Raccolte dal sovrastante altopiano e dalla busa di Tinasso, copiose acque s'inabissavano nei meandri della montagna e affioravano sulla testata della Valle dell’Orco e nelle sorgenti che alimentavano il paese e i suoi masi. Era un giochetto per le anguane spostarsi dalla Scafa al paese, e di maso in maso, di contra’ in contra’ senza dare nell’occhio, usando questi misteriosi passaggi. Ecco perché apparivano e scomparivano presso le fonti, dove gli umani si recavano per attingere l’acqua o abbeverare le bestie e dove di solito accadevano quei fattacci che coinvolgevano gli òmeni e mandavano in bestia le fémene. La scafa era dunque lo snodo strategico cui facevano capo gli innumerevoli e sotterranei rivoli d'acqua che innervavano il bacino imbrifero dell'Astico. D'altronde, al tempo in cui degli umani non c'era ancor traccia, essa era lambita dalla lingua laterale dell'immenso ghiacciaio dell'Adige, sotto al quale scorrevano le acque che stavano modellando la Valle. Allora erano ancora gli Orchi a presidiare i passaggi delle valli in formazione, mentre schiere di allegri Salvanéi percorrevano il ghiacciaio e le sue creste scivolando sui loro enormi piedi e godèndose on pasto. Poi i ghiacciai si ritirarono, la terra si ricoprì di vegetazione e infine, buoni ultimi, arrivarono gli uomini; è così che cominciò la storia!
Raccontavano nei filò che le anguane abitassero leggiadre e spensierate le limpide e cristalline acque della nostra Valle, fino a quando non arrivarono dei monaci a rompere gli atavici e naturali equilibri dei luoghi. Accanto a quegli umani dai rigorosi costumi, ce n'erano altri d'indole più profana che si trascinarono dietro delle temibili concorrenti: le fémene! Ne nacque così un connubio esplosivo! Dovete infatti sapere che c'erano solo due esseri che mandavano in bestia le anguane: i prete e le fémene! Cominciò così una lotta secolare e senza quartiere: i monaci aspergendo acqua benedetta a dosi diluviane e le anguane producendosi in mille forme tentatrici. Pare che quelle maliarde riuscissero perfino a insinganàre quei timorati dei Lusernati, risalendo fin su quelle nore attraverso i sotterranei meandri della Torretta.
Il loro canto risuonava talvolta nella valle come un irresistibile richiamo. Gli uomini, presi da improvvisa vertigine, venivano attirati come tanti fabiochi. Non c’era verso di trattenerli. E non pochi, ammaliati di brutto, rincorrevano le belle ninfe fin presso i gorghi o le doline. Era fatale che qualcuno vi si inabissasse per non più comparire. A nessuno mai sorse il sospetto che questi effetti derivassero dall’abuso del locale vin pìcolo, più affine al bonbo de védo che all’ambrosia. I soli immuni dagli influssi malefici, ma fino a un certo punto, erano ovviamente i frati e le donne: i primi in virtù di protratti digiuni e penitenze, le seconde a motivo della loro stessa natura, che le escludeva in partenza da quel genere di incantesimi. I monaci dell’Ospizio di San Pietro, come pure i loro confratelli di Brancafora, dovettero perciò escogitare le furbizie più impensabili per competere con le anguane, o per difendersi dalle loro malìe, poiché erano pur sempre uomini anche loro.
Misero a segno un primo clamoroso successo quando riuscirono a scacciarle dalla Scafa, la loro imprendibile roccaforte. Lo fecero arrampicandosi sulla prima nora con tre vedulìti di acqua santa e versandoli giù per la parete cogliendo di sorpresa le anguane. Svegliate di soprassalto e in preda agli spasmi causati da quella santa umidità, quelle strane creature sfollarono precipitosamente verso l'Astico, dove s’immersero per una pagana purificazione. L’acqua era bensì il loro elemento naturale e vi avevano assoluta confidenza; ma quella santa no, quella proprio non la sopportavano.
La lotta fra il sacro e il profano si trascinava avanti ormai da tempo con alterne vicende e sfiancando parecchio i monaci; finché essi non decisero di porre fine alla contesa eliminando definitivamente dalla Valle quelle pagane presenze. Il Rettore pensò quindi di convocare un capitolo straordinario e indire un regime di digiuno ad oltranza per tutta la quaresima incipiente, al fine di essere illuminati sulla migliore decisione da prendere. I giorni scorrevano lenti, ma nessuna idea efficace riusciva a farsi strada nelle menti di quei religiosi pur purificate dal digiuno; o forse ormai ottenebrate dallo stesso. Anzi, il continuo andirivieni dei pellegrini, e soprattutto il loro allegro rumoreggiare nel refettorio, li concentrava sempre più sulla considerazione delle loro pance vuote. Più passava il tempo e più i profumi della cucina che salivano alle loro cellette si rivelavano ben più tentatori delle anguane stesse.
Fu così che balenò l’idea di convocare il cuoco per capire se si potesse utilizzare il cibo come arma segreta anche con quelle creature. Era costui un rozzo sanpieroto che era diventato converso dopo qualche brutta vicissitudine avuta proprio con le anguane e ne aveva perciò una più approfondita conoscenza, oltre a qualche conto da regolare. Anni addietro i frati lo avevano salvato dai suoi demoni e accolto nell’Ospizio, dove s’era rivelato un bravo factotum, nonché abile cuoco e intrattenitore per quei pellegrini germanici che si recavano a Venezia per imbarcarsi per la Terrasanta.
Il converso scartò subito l’ipotesi di utilizzare il cibo come esca, dato che le anguane non ne erano minimamente attratte; c’era però qualcosa di ben più potente che poteva essere usato: il fuoco! Se infatti il loro elemento naturale era l’acqua, bisognava colpirle col suo diretto e naturale antagonista, il fuoco per l’appunto! L’idea convinse l’intero capitolo, ben disposto ad accogliere qualsiasi iniziativa che interrompesse quella protratta e rigorosa penitenza.
Organizzare l’operazione richiedeva però il ricorso a dei rinforzi e l’aiuto naturale fu individuato nelle fémene, esse pure sempre in perenne lotta con quelle ninfe. Il piano fu messo meticolosamente a punto da fra Ancio, l’unico converso con trascorsi militari; esso fu poi illustrato dal Rettore dell'Ospizio alle donne del paese convocate in chiesa con un sommesso passaparola partito dal confessionale.
Per quelle sanpieròte si stava materializzando un sogno a lungo coltivato: eliminare definitivamente quelle inafferrabili concorrenti con il beneplacito di Santa Romana Chiesa, ribaltando i paradigmi patriarcali e con l’aiuto di cotanti alleati. Ora occorreva scegliere il momento giusto per ottenere la massima efficacia e la sicurezza di riuscire ad eliminare tutte le anguane in un sol colpo. Si sapeva dalle storie dei filò, che l’unico momento in cui le anguane erano obbligate a riunirsi in riva all’Astico per i loro riti era la Walpurghisnacht, tra il trenta aprile e il primo maggio; giusto di lì a poco dunque, appena dopo Pasqua e con i monaci ripresisi dall’estenuante digiuno e pronti alla battaglia rinvigoriti dai riti della Redenzione. Era quella per l'appunto la notte dove le anguane celebravano i loro riti propiziatori stagionali legati al culto di Ostera, ai quali, finché non arrivarono i monaci, pare partecipassero anche gli abitanti del luogo.
Fra Ancio aveva preparato un buon numero di torce, confezionando fasci di rami di ginepro ben inbosemà de rasa de pesso. Dopo il tramonto dell’ultimo giorno di aprile, il Rettore aveva quindi raccolto i confratelli sotto il pronao della chiesetta dell’ospizio, assieme anche a diversi pellegrini incuriositi dall’evento che si profilava e pronti a dare man forte contro quelle pagane entità. Le fémene erano intanto convenute sul sagrato di nascosto dai mariti e a tutti i presenti furono distribuite le fiaccole. L’inedita alleanza di frati, fémene e devoti pellegrini foresti che avevano qualcosa da farsi perdonare, era senz’altro garanzia di riuscita. Almeno così la pensava il Rettore. Quest’ultimo dovette prodigarsi un bel po’ per calmare le fémene ed evitare che la concitazione che le agitava e il brusìo dei ciacolamìnti venisse avvertito da qualche omo nei dintorni. La comitiva si dispose infine ordinatamente in fila in una strana processione, con fra Ancio davanti a fare da attento apripista e il Rettore con la croce dietro, per non insospettire le anguane. Ci pensò il cuoco a indicare il luogo del convegno di quelle ninfe, dato che fu proprio lui uno degli ultimi umani a parteciparvi nei suoi verdi anni.
Il posto della congrega per la Walpurghisnacht era la confluenza della valle dell’Orco nell’Astico, dato che a quel tempo il torrente scorreva rasente il piede della collina di San Pietro. Laggiù c’erano allora dei bianchi ghiaioni e bisognava stare attenti a non farsi scoprire dal riverbero della luna prima di potere scatenare l’agguato. La colonna scese quindi in silenzio la collina giù per i Trudi, per piegare poi subito verso sud attraversando diagonalmente la Roversa e giungere al boschetto oltre le Vegre. Non era infatti prudente passare per l’Areta, per evitare incontri con qualche omo e pregiudicare l’effetto sorpresa.
Acquattato nel boschetto sotto l’accorta regia di Ancio, il gruppo attese in silenzio che spuntasse la prima falce dei luna. Non appena infatti essa s’affacciò da dietro l’Altar Knotto a illuminare quelle acque, queste ribollirono d’una strana e spumeggiante schiuma e apparve un gran numero di quelle diafane presenze che danzavano sull’acqua con movenze sinuose, immergendosi guizzando come sirene per poi riemergere cantando suadentissime nenie. Le loro vesti cangianti svolazzavano nell’aria fresca della notte incipiente e il loro canto s'univa a cappella in modo così struggente e ammaliatore che persino le fémene ne furono affascinate. Fra Ancio avvertì subitaneamente il pericolo e passò immediatamente all’azione, accendendo la prima torcia con l’acciarino; quindi il fuoco fu passato di torcia in torcia finché anche l’ultima s’accese in un baleno d’una fiamma vigorosa e scoppiettante. Fu allora che, come un sol uomo, tutti i convenuti sbucarono dal fogliame e lanciarono le loro torce nell’acqua, secondo le minuziose istruzioni ricevute dal Rettore. Le fiaccole piombarono sulle anguane come un nugolo di frecce, spegnendosi poi nell’acqua in un infernale baluginìo di luci, vapori e fumi. Un grido straziante, gutturale e indicibile lacerò la notte come emesso da un'unica diabolica creatura e poi fu il silenzio. Dissolta che fu quella nebbia, apparve chiaro che le anguane erano scomparse e l’operazione poteva dirsi riuscita.
Quando le campanelle sulla facciata della chiesa suonarono a distesa sul far della notte, gli uomini del paese non si capacitavano della ragione, ma lo compresero subito dopo all’arrivo delle mogli, dalle facce accaldate e dalle còtole scomposte, ma dal ghigno soddisfatto. Esse non persero tempo a prodigarsi in dettagli fantastici di quella spedizione risolutiva, godendo dello sconcerto che palesavano le espressioni stupite dei mariti.
Non si trattò tuttavia di annientamento; in quel luogo erano bensì convenute tutte le anguane, provenienti da ogni sorgente, cògolo, vallecola o polla d’acqua della Valle, ma qualcuna riuscì fortunosamente a salvarsi. Queste acque erano infatti collegate da una capillare rete di rivoli e meandri sotterranei, che le anguane usavano abitualmente per spostarsi da un luogo all’altro; non per nulla esse erano le ninfe delle acque. Alcune di esse più giovani e scaltre riuscirono ad immergersi prima d’esser toccate dal fuoco e risalirono per quelle vie alle sorgenti d’altura, sottraendosi all’atroce destino delle compagne. La maggior parte delle scampate si rifugiò sulla sorgente dell’Orco e nel cògolo della Torretta, che infatti prese da loro il nome. Fortunatamente vennero in loro soccorso i salvanèi, che le consolarono, aiutandole poi riprendersi il territorio tenpelando gli umani a più non posso.
Passò del tempo prima che le sopravvissute si riorganizzassero e tornassero alle vecchie abitudini, con sollievo degli òmeni e rinnovato sconcerto di frati e fémene.
Nessun commento:
Posta un commento