Lunedì 14 gennaio 2019
Alcune famiglie al completo, nonni
compresi, sono sedute ciascuna attorno a una bella tavola natalizia.
Una voce fuori campo pone delle domande ai singoli componenti. Chi
risponde correttamente rimane, se sbaglia esce dal gioco. Quale famiglia
vincerà? I primi giri di domande, mirate sull’età e gli interessi di
ciascuno, vedono trionfare tutti: come si chiama l’eroe di Game of Thrones?
Dove sono andati in vacanza Ferragni e Fedez per Natale? Quanti goal ha
segnato Ronaldo in questo campionato? Dove si sposerà Lady Gaga? Ma a
un tratto le domande cambiano. Quale è il gruppo preferito di tuo
figlio? Dove si sono conosciuti papà e mamma? Dove sono andati in
viaggio di nozze? Dove lavora la mamma? Di che cosa si occupa
esattamente papà? Che cosa faceva il nonno prima della pensione? Qual è
la canzone preferita di tua figlia? Il libro preferito di tua sorella?
Il sogno di tuo fratello? Perché papà e mamma ti hanno chiamato così? A
queste domande, apparentemente più semplici, i componenti della famiglia
danno risposte sbagliate o non sanno rispondere. I tavoli si svuotano.
Ho rielaborato una pubblicità che mostra, amaramente, che sappiamo tutto
di persone lontane e niente di chi ci sta accanto.
Preferiamo le
infinite e immaginarie emozioni delle relazioni virtuali, alla gioia
faticosa di quelle reali.
Perché passiamo, in media, 24 ore a settimana
con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo e non abbiamo il tempo
per parlare faccia a faccia o mano nella mano?
La maggior parte delle lettere che ricevo dai ragazzi riguardano sofferenze nascoste,
da casi gravi (anoressia, bulimia, dipendenze, autolesionismo) a più
ordinarie, ma non meno dolorose, solitudini. I ragazzi si confidano con
uno sconosciuto e io, non conoscendo le loro storie e situazioni reali,
dico loro che la prima cosa da fare è parlare con i genitori o altri
adulti di riferimento, ma spesso mi sento rispondere: non capirebbero,
rimarrebbero delusi, non hanno tempo, mi hanno detto di non dare peso
alla cosa, passerà...
Ecco una delle ultime lettere ricevute: «Ho 18 anni e mi sento vuota.
Scrivo, sperando che qualcuno legga l’email confusa, scritta tra
lacrime salate, di una ragazza che non ne può più. Ti scrivo la sera
della vigilia di Natale perché è l’ennesima vigilia che nasce piena di
buoni propositi e speranze che poi vengono spezzati dai miei. Mi capita
di pensare di scappare via e lasciarli con una frase: “Avete rotto un
legame: adesso è andato via, irrecuperabile”. Non so come affrontare la
situazione e con chi parlarne. Potrai dire che ci sono i professori: per
me sono degli estranei, pronti a svalutarmi. Potrai dire che ci sono
gli zii e i nonni, ma è anche a causa loro che alla vigilia di Natale mi
trovo dietro allo schermo, scrivendo e sperando che la persona a cui
chiedo aiuto mi legga. Potrai continuare a replicare che ho un mondo di
persone con cui potrei parlare, ma quelle persone non mi stanno realmente
a sentire e tutte le volte che ho provato sono stata descritta come
problematica, disagiata, insomma da curare. Non so più in cosa credere.
Non so il significato reale di donarsi, quali siano i veri valori da
seguire, cosa voglia veramente dire Natale. Non so cosa si prova a
ricevere una carezza di qualcuno importante. Recentemente in una
discoteca mi stavo per avvicinare al bancone per una birra, quando un
ragazzo sconosciuto mi ha messo la mano sulla spalla e mi sono sentita
“presente” ma, l’attimo dopo, allontanandomi da lui, mi sono resa conto
che in quel tocco c’era una solitudine immensa e che non si sa realmente
quale sia il significato di amore. Mi sono resa conto che la discoteca è
un bordello per chi non vuole sentirsi solo il mattino dopo, al
risveglio. Mi sono resa conto che non sono l’unica a essere ignorante
delle basi della vita e non so a che cosa sia dovuto». Parole scritte a
uno sconosciuto, la vigilia di Natale, da una tastiera. La lettera si
apre con un «mi sento vuota» (ricerca di pienezza) per approdare, con
perfetta coerenza, alla domanda: quali sono le basi della vita e perché
non le ho ricevute (ricerca di senso)? La «pienezza di senso» è ciò che
spesso manca a questi ragazzi e molto dipende dalla qualità delle
relazioni principali.
Tempo fa lessi un libro, molto
pragmatico e semplice, di Gary Chapman, un consulente familiare: «I
cinque linguaggi dell’amore». L’autore spiega che ciascuno di noi impara
a riempire il proprio «serbatoio dell’amore» da bambino, sulla base dei
cinque possibili modi in cui l’amore viene trasmesso nelle relazioni.
Li usiamo tutti e cinque, ma ognuno ha la sua classifica e dà amore nel
linguaggio con cui lo ha ricevuto, sicuro che anche l’altro parli lo
stesso, ma non è così. Spesso una relazione (di coppia, d’amicizia,
educativa...) non cresce perché le persone non usano l’uno il linguaggio
dominante dell’altro: ciascuno fa il suo discorso amoroso che, per
quanto sincero, l’altro non riesce a recepire, perché è sintonizzato su
un’altra stazione. Tante relazioni si
rovinano, benché ci sia impegno, semplicemente perché non si parla la
lingua altrui, convinti che la propria sia l’unica. Ecco i cinque
linguaggi. 1) Parole di incoraggiamento: tutta l’area delle parole di
conforto e rassicurazione («figlio mio, sono fiero di te», «figlia mia,
se potessi scegliere tra tutti i ragazzi del mondo sceglierei te», «sei
una moglie eccezionale», «caro, hai fatto un lavoro perfetto»...). 2)
Momenti speciali: vicinanza e ascolto esclusivi (eliminando ogni
distrazione: cellulare, tv, giornale...), insomma dialogo con contatto
visivo costante, senza interrompere, osservando il linguaggio del corpo
altrui, chiedendo chiarimenti e il permesso per dire la propria
opinione. 3) Doni: non grandi regali ma piccole cose e gesti frequenti e
sentiti, cioè personalizzati (un biglietto affettuoso, un fiore
inaspettato, un piatto speciale, una canzone azzeccata...). 4) Gesti di
servizio: partecipare ai lavori di casa e non, gratuitamente, facendoli
insieme (dalla lavatrice ai piatti, dal mettere i panni sporchi nella
cesta a sparecchiare la tavola, dalla spazzatura alla spesa...). 5)
Contatto fisico: gesti affettuosi, da una carezza data senza motivo a un
abbraccio quando si rientra a casa, da un bacio sugli occhi stanchi la
sera a uno sulle labbra uscendo di casa, dal prendersi per mano in
pubblico al saper ascoltare il corpo dell’altro nell’intimità amorosa.
Chiaramente ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e all’età
delle persone: saper amare in fondo è imparare ad usare tutti i
linguaggi con naturalezza.
Avendo ognuno di noi uno o due
linguaggi privilegiati, se non conosciamo quelli delle persone vicine,
anche se le «amiamo», non riusciremo a farle «sentire amate». Anzi
magari ci colpevolizzeremo se non rispondono, ma stiamo semplicemente
parlando lingue diverse. Se l’amata preferisce il «tempo di qualità» un
uomo non può cercare sempre e solo il «contatto fisico». Se un figlio ha
bisogno di «parole di incoraggiamento» non serve sbrigarsela facendogli
«doni». Sono esempi generici: occorre osservare, chiedere, provare, e
poi stilare la graduatoria dei cinque linguaggi, propria e di ciascuno,
per impegnarsi a usare quello adatto a riempire il serbatoio dell’amore
altrui, uscendo dal proprio modo di amare e imparando anche gli altri:
questo fa maturare sé e la relazione. Ho alunni a cui serve una mano
sulla spalla, altri a cui fa bene un «sono fiero di te», ad altri devo
regalare un libro e ad altri ancora offrire un caffè a tu per tu. Ognuno può ricevere amore solo nella lingua in cui riesce a comprenderlo: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, non esiste il passepartout. E la persona, nella sua unicità, emerge e si consolida solo quando si sente dare del tu dall’amore.
Quando i miei genitori hanno
festeggiato un importante anniversario di matrimonio, noi figli abbiamo
recuperato, da una scatola che ritenevano ben nascosta, le loro lettere.
Le abbiamo rilegate in ordine cronologico in un libro che abbiamo
regalato loro. Noi figli non le abbiamo lette (o quasi...), per rispetto
della loro intimità, ma quelle righe, scritte a mano con cura e
trepidazione, erano la futura storia di ciascuno di noi. Non sarà
possibile farlo con le mail e i messaggi whatsapp, a meno che non
decidiamo di prendere carta e penna. Avete mai scritto una lettera (magari a mano) a vostro figlio, ai vostri genitori?
Io lo consiglio sempre a chi non riesce a confidarsi faccia a faccia.
Una mail dopo un po’ non si rilegge e non si conserva, al contrario di
una lettera scritta a mano. Queste sono «le basi della vita» e richiedono una calma creativa.
In questo nostro tempo, troppo veloce e ingolfato, forse proprio per
zittire l’urlo del cuore vuoto, così come per pensare bisogna fermarsi a
pensare, per amare bisogna fermarsi ad amare.
Il letto da rifare è trovare il tempo,
un poco ogni giorno, per immaginare, e poi realizzare, un gesto
quotidiano per ogni relazione fondamentale, in base al linguaggio dell’amore principalmente usato dall’altro.
La manu-tenzione dell’amore si fa con gli strumenti giusti, e così l’amore cresce, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisazione e la routine ne diventano la fatale mano-missione.
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