[ Gianni Spagnolo © 26/12/2018 ]
Oggi può sembrare anacronistico parlare di calligrafia (dal greco καλòς/kalos: bello
e γραφία/grafia: scrittura), in un mondo che pare si stia velocemente avviando verso
l’uso esclusivo dell’indice pigiato su uno schermo touch.
Dicono che persino il fondatore di
Apple, Steve Jobs, seguisse dei corsi di calligrafia e fosse proprio da questi superati insegnamenti che imparò una lezione fondamentale: la bellezza è nel
dettaglio, qualunque cosa nata per scopi funzionali può avere il suo punto di forza
nella precisione e nell’estetica.
La forma d'una lettera è dunque complementare al suo suono e al suo senso. Questo l’avevano già intuito
artisti e matematici del Rinascimento, quali Leon Battista Alberti o Luca B. de' Pacioli, nel momento in cui applicarono proporzioni geometriche ed equilibri
classici alle lettere del lapidario romano, ovvero quello che noi oggi identifichiamo come stampatello maiuscolo.
Ogni lettera, basata su cerchi e quadrati, è un microcosmo che riflette la perfezione e la bellezza del macrocosmo. Non sarà un caso che si tratti delle medesime figure geometriche nelle quali è racchiuso l’uomo vitruviano di Leonardo.
Ogni lettera, basata su cerchi e quadrati, è un microcosmo che riflette la perfezione e la bellezza del macrocosmo. Non sarà un caso che si tratti delle medesime figure geometriche nelle quali è racchiuso l’uomo vitruviano di Leonardo.
Scrivere in un buon corsivo dovrebbe essere un fatto scontato, dato che si apprende già dai primi anni di scuola, invece dicono che quasi la metà degli studenti delle scuole superiori non riesca più ad
utilizzare il corsivo e mescoli lo stampato maiuscolo e minuscolo, quando non
scriva addirittura tutto a stampatello.
La scrittura corsiva è importante
perché è la grafia manuale più rapida essendo stata pensata, fin dal
Rinascimento, per poter scrivere sollevando il meno possibile la penna dal
foglio. A differenza dello stampatello, in cui le lettere
sono tutte separate tra loro, nel corsivo ogni lettera è legata a quella
successiva con tratti fluidi e continui. Si tratta di una caratteristica
fondamentale per prendere appunti e scrivere velocemente.
Secondo alcuni studi poi, la
scrittura manuale in corsivo, nel momento in cui attiva la connessione
mano-occhio-cervello, stimolerebbe le aree cerebrali deputate all’apprendimento, favorendo quindi l’assimilazione e la memorizzazione di concetti meglio che
scrivendo su una tastiera.
Poiché i movimenti più naturali
per la nostra mano sono quelli in senso antiorario (al contrario per i
mancini) e dall’alto verso il basso, sono queste le movenze principali da effettuare per scrivere bene; oltre naturalmente alle
legature, tratti che uniscono le lettere e che possono variare in base agli
accoppiamenti. Questo tipo di scrittura tende col
tempo ad abbandonare lo standard e ad assumere forme e andamenti personalizzati. Trovare due
grafie identiche, infatti, è come incappare in due impronte digitali uguali.
Ogni grafia rivela perciò molto della
personalità dello scrivente, ma non in base a teorie esoteriche o fantasiose:
il carattere di ogni persona tende a manifestarsi anche sui movimenti di
tracciamento della scrittura. Un grafologo è in grado infatti di svelare
aspetti del nostro temperamento osservando i margini che lasciamo nel foglio,
l’andamento ascendente o discendente della scrittura, la nostra firma e tanti
altri particolari nelle singole lettere. Dati che permettono anche di accertare
l’originalità di uno scritto nelle perizie. Osserviamo che persino i graffitari (pardon:
i writers), cercano di inventare il proprio tag, la loro firma identificativa,
con svolazzi che hanno molto a che vedere con la calligrafia (Peccato la usino
a sproposito per insozzare muri e monumenti pubblici. Forse perché non li fanno
più esercitare a scuola ;-).
Appunto per questo, in passato la scrittura in
corsivo doveva sottostare a precise regole affinché fosse comprensibile a
tutti, dato che era anche l’unico modo di comunicare a distanza e fissare i pensieri nel
tempo. La minoranza che padroneggiava le lettere doveva infatti preoccuparsi grandemente
di farsi capire e perciò adottare segni grafici e legature che fossero chiaramente
intelligibili almeno dai contemporanei.
Per restare nel nostro piccolo mondo antico,
è lecito pensare che trecento anni fa a San Pietro non fossero in molti capaci di
governare una penna: probabilmente si contavano sulle dita d’una mano; forse su quella d'un vecio marangòn. Fra
questi, necessariamente, l’unico notaio paesano: quell'Antonio Toldo di Battista che
ci ha lasciato il piccolo foglietto riportato in foto, in cui ha tracciato i
segni grafici dell’alfabeto corsivo latino in uso allora a mo' di modello di riferimento.
La sua scrittura non rappresentava
certo un saggio di calligrafia, dato che ho perso gli occhi a decifrare i
suoi scritti (ma forse il limite è mio e pure la mia mano lascia parecchio a desiderare), ma lui ne faceva un uso professionale e quindi dobbiamo ritenerla
esemplare per quel tempo e il nostro territorio.
Immagino che il Nostro abbia redatto questa sorta di campione nei primissimi anni del suo ufficio, giusto per darsi uno stile uniforme, per poi usare il foglietto più profanamente per pulire la penna d'oca.
Chissà invece come facevano allora l'inchiostro, che ora vediamo sbiadito dal tempo in questi scarabocchi. Ho idea che lo ricavassero alla stessa maniera che mi spiegò mio Padre, scolaro fra le due guerre due secoli dopo. In quei tempi più vicini a noi, ma di altrettanta penuria e autarchia, i ragazzi sopperivano alle forniture scolastiche raccogliendo e mettendo a macerare quelle bacche nere che da noi si chiamano, mi pare: "baléte de gato", per ricavarne un rudimentale inchiostro violaceo che virava al seppia col tempo. Credo si trattasse delle drupe del sanbugaro (sambuco), ma non ne sono certo. Oltre a questo ingrediente necessitavano alcuni altri passaggi per fissare il composto e renderlo idoneo all'uso, ma ne ho perso la memoria. Mi appello a qualcuno più stagionato di me per rinverdire la mistura. Non è detto infatti che in quest'epoca di tagli e spese sconclusionate non tornerà utile ai nostri scolari sapere come sopperire eventualmente alla bisogna. ;-)
Chissà invece come facevano allora l'inchiostro, che ora vediamo sbiadito dal tempo in questi scarabocchi. Ho idea che lo ricavassero alla stessa maniera che mi spiegò mio Padre, scolaro fra le due guerre due secoli dopo. In quei tempi più vicini a noi, ma di altrettanta penuria e autarchia, i ragazzi sopperivano alle forniture scolastiche raccogliendo e mettendo a macerare quelle bacche nere che da noi si chiamano, mi pare: "baléte de gato", per ricavarne un rudimentale inchiostro violaceo che virava al seppia col tempo. Credo si trattasse delle drupe del sanbugaro (sambuco), ma non ne sono certo. Oltre a questo ingrediente necessitavano alcuni altri passaggi per fissare il composto e renderlo idoneo all'uso, ma ne ho perso la memoria. Mi appello a qualcuno più stagionato di me per rinverdire la mistura. Non è detto infatti che in quest'epoca di tagli e spese sconclusionate non tornerà utile ai nostri scolari sapere come sopperire eventualmente alla bisogna. ;-)
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