Un esodo che causò migliaia di morti in mare. Oggi come ieri la stessa disperazione, le stesse speranze. Ecco perché non possiamo non accogliere.
Guardatela bene la foto. Cercate, se ci riuscite, magari tra i
volti di quei bambini, tra quelle donne e quegli uomini dignitosi,
spaventati o sognanti, tra tutti quegli italiani ammassati a poppa e a
prua e nelle stive, in tasca un biglietto di sola andata e all’orizzonte
almeno quaranta giorni di navigazione. Così eravamo noi, fino a
sesaant’anni fa. Figli della miseria più nera, della fame e delle
malattie, delle guerre e delle persecuzioni, schiavi di baroni e
capibastone. Eravamo noi quelli che allora lasciavano il loro cuore in
Italia e fuggivano e salpavano verso l’Eldorado, salutati nei porti
dalle lacrime e dalla disperazione nei tramonti più struggenti e tristi
del mondo. Eravamo noi, tra la fine dell’Ottocento e la metà del
Novecento a milioni ad imbarcarci con il coraggio dei disperati su
navi-carrette e piroscafi fatiscenti con rotta verso l’Oceano. Molti
hanno pagato con la vita il viaggio verso una esistenza dignitosa,
migliore.
Solo dal 1876 al 1915 furono ben 14 milioni i nostri migranti con la
speranza trasportata dentro la valigia di cartone, salpati per “cercare
fortuna” altrove. In quarant’anni di continua emigrazione di massa si
sono mossi in 7 milioni e 600mila italiani, e hanno superato l’Atlantico
diretti in Argentina, in Brasile e negli Stati Uniti. Come passavano le
ore e i giorni e le settimane in quelle allucinanti traversate? Cercate
negli archivi comunali dell’immigrazione e nelle lettere o nei racconti
dei sopravvissuti, e scoprirete storie che per noi italiani oggi
sembrano inventate, distanti anni luce dalla modernità. Partivano, i
nostri, in condizioni simili e addirittura peggiori a quelle delle
moderne ondate migratorie.
Questo ci dicono le immagini e i resoconti del Museo nazionale
dell’emigrazione italiana: «Al trasporto dei migranti venivano assegnate
le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si trattava
di piroscafi in disarmo, chiamati “vascelli della morte”, che non
potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano oltre 1.000, che
partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. Nei “vascelli
fantasma” la “merce” a bordo arrivava anche priva di vita a causa delle
pessime condizioni igieniche e sanitarie».
I morti? I naufragi? Tantissimi. Sul piroscafo “Città di Torino” nel
novembre 1905 furono 45 sui 600 imbarcati; sul “Matteo Brazzo” nel 1884
contarono 20 morti di colera su 1.333 passeggeri e li gettarono in mare,
ma la nave venne poi respinta a cannonate a Montevideo per il timore di
contagio; sul “Carlo Raggio” furono 18 i morti per fame nel 1888 e 206 i
decessi per “malattia” nel 1894; sul “Cachar” elencarono 34 morti «per
fame ed asfissia» nel 1888; sul “Frisia” nel 1889 ci furono altri 27
morti “per asfissia” e più di 300 sbarcarono malati e in fin di vita;
sul “Parà” nel 1889 altri 34 morti per una epidemia di morbillo; sul
“Remo” 96 morti «per colera e difterite» nel 1893; sull’”Andrea Doria”
archiviarono 159 morti su 1.317 emigranti nel 1894; sul “Vincenzo
Florio” ancora 20 morti, sempre nel 1894.
Le carrette degli Oceani con a bordo la «tonnellata umana», cosi
chiamavano il carico di emigranti italiani, spesso affondavano. Come
nella strage di 576 italiani, «quasi tutti meridionali», annegati il 17
marzo 1891 nel naufragio dell’”Utopia”, davanti al porto di Gibilterra.
Altri 549 emigranti sparirono nelle acque gelide nella tragedia del
“Bourgogne” al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898, e ben 550
emigrati italiani furono vittime, il 4 agosto 1906, del naufragio del
“Sirio” in Spagna. Si pensava fossero “solo” 314 gli altri inghiottiti
dal mare, secondo la conta ufficiale, ma raccolsero più di 600 cadaveri
di connazionali nel naufragio della “Principessa Mafalda” il 25 ottobre
1927, al largo del Brasile. Il naufragio della “Principessa Mafalda” fu
la peggiore sciagura che abbia mai colpito gli emigranti italiani.
La nave era un tempo l’ammiraglia della flotta del Lloyd italiano, ex
prestigioso piroscafo tricolore con la terza classe munita persino di
servizi igienici che poteva trasportare fino a 1.200 emigranti. Partì da
Genova l’11 ottobre con a bordo 1.259 piemontesi, liguri e veneti.
Peccato fossero passati vent’anni di scarsa manutenzione e la nave era
talmente usurata che nel solo tratto di Mediterraneo verso Gibilterra
subì 8 guasti ai motori, uno alla pompa di un aspiratore, uno all’asse
dell’elica di sinistra, uno alle celle frigorifere.
Il 25 ottobre, a 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra
Salvador de Bahia e Rio, procedeva inclinata verso sinistra. Alle 17.10,
l’asse dell’elica sinistra si sfilò e ruotando per inerzia squarciò lo
scafo. L’acqua invase la sala macchine e la stiva poiché nemmeno le
porte stagne funzionavano. E centinaia di italiani furono sepolti dal
mare. Altre tragedie le racconta il museo di Ellis Island, il celebre
centro di smistamento e di quarantena per gli italiani in attesa di
mettere piede a New York. Il centro era stato progettato per accogliere
500.000 migranti all’anno, ma ne arrivavano un milione, il doppio preda
di schiavisti, truffatori, ladri di bagagli, sfruttatori con tassi di
cambio da rapina per il poco denaro che erano riusciti a portare con sé.
Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne e bambini
dall’altra, via gli “indesiderabili” e i malati. I dottori controllavano
la presenza di «malattie ripugnanti e contagiose» e «manifestazioni di
pazzia».
Chi non superava gli esami medici, veniva contrassegnato con una
croce bianca sulla schiena e confinato sull’isola-porta degli States e
poi reimbarcato verso il porto di origine, in genere Genova o Napoli.
Molti però si tuffavano in mare e finivano straziati dagli squali, o
cercavano alla disperata di raggiungere Manhattan a nuoto, oppure si
suicidavano, piuttosto che affrontare la vergogna del ritorno a casa.
Ellis Island in quegli anni prese il nome di “Isola delle lacrime”. La
maggior parte degli immigrati, però, come è sempre accaduto nella storia
dei flussi migratori, fece grande il New Jersey e grandissimi gli Usa.
La città con più italiani al mondo non a caso è San Paolo del Brasile.
Altri tempi, altre storie? Certo, come è certo che nei migranti di
questo nostro tempo rispecchiamo noi stessi, la nostra anima, la nostra
civiltà. Quei cadaveri asfissiati nella stiva di oggi sono gli stessi
cadaveri di bambini, mamme e papá italiani asfissiati nelle stive di un
secolo fa, e anche loro sognavano la fine di un incubo ma sono morti nel
modo peggiore.
Quanti piemontesi o siciliani erano dei puntini neri persi per sempre
nell’azzurro mare, venivano stipati a forza su barconi che sembravano
zattere, esattamente come un secolo dopo tante ragazze e ragazzi cercano
un appiglio nel mondo per conquistarsi la vita? Cosa volete che sia la
paura per uno che parte verso il futuro in quelle condizioni, accucciato
dentro il cofano di una automobile, infilato in una valigia, insaccato
nel vani della ruota di scorta, aggrappato ai semiasse di un Tir, appeso
a novemila chilometri d’altezza nel bagagliaio di un aereo. I migranti
di ogni epoca sanno, eccome se lo sanno, cosa li aspetta. Sono disposti a
provarci e a riprovarci, mamme all’ottavo mese e papá che vogliono
proteggere quello spicchio di vita, speranza, futuro. Ci riproveranno
sempre perchè voltarsi indietro significa guardare negli occhi la
violenza pura, la tortura, la fame, gli omicidi senza pietà. E l’Italia
migliore li salva e li accoglie e lo farà sempre. Ci accuseranno di
essere buonisti? Un complimento.
(segnalata da Odette)
(segnalata da Odette)
grazie Odette, credo ne avessimo tutti bisogno, troppo facile seguire chi urla forte e non sentire il lamento di chi neanche ha più il fiato per farlo
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