Usare cose vecchie è insieme utile e confortante. Riprendere in mano vecchi oggetti, accoglierli in casa, dargli un luogo e un uso mi fa sentire nello stesso momento semplice e sovversiva. Ribelle e casalinga. Contadina e rivoltosa.
Questo è il periodo dei consumi, dove tutto ciò che si rompe, si butta e le cose vengono fatte apposta per rompersi presto, e venire buttate. E se anche non si rompono, allora ci pensa la pubblicità a farci nascere dentro il desiderio di cose nuove, fatte diversamente, con altri colori, con diverse forme. Insieme, obsolescenza programmata e spot pubblicitari creano e rinnovano bisogni di oggetti che accumuliamo senza senso e di rifiuti che non sappiamo più neanche dove accumulare.
Per questo, recuperare mobili antichi, vestire abiti usati, mangiare dentro a vecchie scodelle è un modo umile e deciso per nuotare contro alla corrente. Per mettere a tacere quella vocina suadente che ci dice che lei sa di cosa abbiamo bisogno, cosa vogliamo, chi siamo.
Perché non è vero che lo sa, quella vocina. Noi non siamo quello che compriamo. Non siamo i vestiti che indossiamo, la macchina che guidiamo, gli utensili che utilizziamo. Siamo il corpo dentro l’abito. Siamo la mano sul volante. Siamo la bocca sopra al bicchiere.
Quel corpo, quella mano, quella bocca non cambiano se cambiano gli oggetti che toccano. Eppure quegli oggetti cambiano, per come li vediamo. Possono essere utili, o possono essere spazzatura. Possono essere un dono, o possono essere un peso. E con loro, tramite il modo in cui li guardiamo, cambia il mondo. Che può essere sempre più pieno, sempre più sfruttato, sempre più sporco. Oppure può essere un po’ più libero.
Allora ecco che una vecchia tazza può diventare una piccola chiave sbeccata per dire la propria. Per affermare con la nostra voce quello che desideriamo, quello di cui abbiamo bisogno. Per affermare, con la nostra voce, chi siamo.
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Non mi stancherò mai di ripetere che per essere liberi bisogna avere tempo.
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