sabato 2 luglio 2022

Racconti




Vita contadina soltanto di qualche decennio fa...

La Messa della mietitura e il pane di tutti i giorni
(di Eliana Ribes-web)


Quando ero piccola era impensabile non andare a messa la domenica. Attenersi al precetto festivo era naturale come il sorgere del sole. Fin dalla più tenera età sono sempre andata a quella delle otto, sonno o non sonno, caldo o freddo, perché era l’unica che veniva celebrata nella piccola frazione in cui vivevo, Maestà di Urbisaglia. Vi partecipava l’intera comunità, e anche i bambini più piccoli venivano tirati giù dal letto, perché in casa non rimaneva nessuno. Qualcuno ciucciava un pezzetto di pane, qualcun altro si dondolava sul banco, e più di uno cantilenava.
Una volta all’anno, però, la messa veniva anticipata alle cinque: era quella della mietitura, che veniva celebrata così presto per consentire ai contadini di sfruttare tutta la giornata e in particolare le ore più fresche.
La mietitura di solito iniziava verso il giorno di San Giovanni, dopo che avevamo raccolto i fiori per fare l’acqua odorosa. Questa messa, nella monotona vita estiva, era per me una variazione e mi alzavo volentieri.
Mi piaceva ritrovarmi con la comunità e godere di quella luce mattutina così diversa da quella in cui mi alzavo di solito.
Non era detto che anche il nostro piccolo appezzamento di terra, due coppe in tutto, venisse mietuto in quel giorno festivo, ma si teneva conto delle necessità di tutti.
Così, quando toccava a noi, vedevo arrivare ad aiutarci, come era usanza tra parenti e confinanti, zio Nanni e zia Maria, zia Ida e Rosa, tutte donne ormai anziane, con il vestito a maniche lunghe abbottonato davanti, la pannella di rigatino e il fazzoletto con i lembi ripiegati sopra la testa, sormontato da un cappello di paglia che faceva ombra al viso.
Certo, erano ben diverse dalle giovani contadine che a casa di zia Anita si facevano confezionare sgargianti e sbracciati vestiti estivi che, cosa incredibile a credersi, indossavano proprio per “lo mette e lo batte”. – Ma come –, pensavo io –, si fanno un vestito nuovo per impolverarselo tutto? –.
Non sapevo che era proprio in quei momenti dell’anno, tanto faticosi, ma attesi con ansia, che i giovani avevano occasione di avvicinarsi, di parlarsi e di fidanzarsi, se si piacevano. Non avevo l’età per capire il corteggiamento e l’amore!
Però le mietitrici che piacevano a me erano queste donne solide e segnate in volto dalla vita, che si presentavano portando in spalla la propria falce “fienara”, con la cote legata in vita, per rendere la lama più tagliente all’occorrenza.
Mi scrutavano con attenzione e mi rivolgevano le solite domande che si fanno ai bambini. Io non avevo modo nel corso dell’anno di osservarle così da vicino e di intrattenermi con loro, e consideravo prezioso quel rapporto di parentela che si rinverdiva una volta all’anno. Nonna “Longhèna” era diversa da loro, più riservata, appariva per salutarle e scambiare qualche parola, ma non si intratteneva più di tanto poiché non ne condivideva la fatica.
Queste zie apprezzavano particolarmente le pere di San Pietro, che nel frattempo erano maturate, le coglievano dalla pianta prima dell’inizio e dopo la fine della mietitura e mentre le gustavano si riparavano sotto l’ombra.
Anche un cugino di babbo veniva in aiuto, zio Fiorello, la sua fedele spalla nel mestiere di cementista. Quando la squadra era al completo, le mietitrici e l’unico mietitore avviavano il lavoro con movimenti lenti e cadenzati, trasmessi da qualcuno prima di loro e acquisiti con naturalezza. Dietro, babbo e zio Fiorello facevano i covoni di grano e li legavano, un lavoro che richiedeva più agilità. Ed io guardavo fino alla fine quella bella distesa di spighe color biondo oro che veniva falciata e si trasformava presto in covoni.
Questo era il piccolo tesoro di cui ogni anno venivamo in possesso, per cui trepidavamo quando scoppiava un temporale, per la paura che il vento forte coricasse il grano e rovinasse le spighe, e ancor più quando la pioggia si trasformava in grandine, dura e micidiale come sassate. Eravamo orgogliosi di questa piccola proprietà terriera, quasi ci elevasse socialmente, ma a me piaceva anche perché ci faceva condividere i ritmi di vita della campagna circostante.
Una volta fatti i covoni bisognava ammucchiarli prima in “cavallitti”, per far asciugare bene la spiga, e poi trasportarli sull’aia e costruire il cosiddetto “barcone”, che nel nostro caso era davvero piccolo. Però anche questo richiedeva attenzione e cura, perché ogni volta che si preannunciava un temporale nonna accorreva con una scala per coprirlo con una incerata.
Iniziava poi l’attesa della macchina trebbiatrice. Per capire il giro che questa faceva e calcolare approssimativamente il giorno e l’ora in cui poteva arrivare a casa nostra, babbo si dava un gran daffare: raggiungeva con il motorino i contadini dove era “impostata” la macchina per controllarne i movimenti. A casa nostra c’era sempre tanta eccitazione, perché bisognava essere pronti ad offrire la colazione o il pranzo o la cena ai macchinisti ed alle altre persone che si prestavano ad aiutare. Nonna, in particolare, in quest’occasione smaniava e non trovava pace, perché sarebbe stata “tanta “vergogna” farsi trovare impreparati. Si sa che i “macchinisti” mangiavano più volte al giorno, ed anche cose prelibate - carni arrosto di tutti i tipi, tagliatelle, vincisgrassi, salumi riservati per l’occasione, ciambelloni -, ma a casa nostra, una piccolissima “curtinella” che produceva otto quintali di grano, si dovevano accontentare di una insalata di pomodori e tonno che alla fine, tralasciando le altre alternative, veniva servita ad ogni ora del giorno e ripresentata ogni anno. E non era poi così male, perché si variava il solito menù.
Raccolto il grano in sacchi, una piccola parte veniva lasciata per la semina d’autunno, la rimanente veniva consegnata a Pippo, il fornaio di fiducia, che la trasformava in farina e poi in pane. Pippo passava davanti casa nostra e in tutti i dintorni del paese con il suo furgoncino, si annunciava con un suono di clacson e ci consegnava il pane quotidiano. Annotava su un quadernetto tutto quello consumato, finché la quantità di farina che aveva in serbo non si esauriva. Dopo di che il pane lo pagavamo in contanti.
Questa era la mia vita negli anni cinquanta e sessanta, e state sicuri che, “prisintina” com’ero, anche a Pippo andavo incontro con piacere, perché ogni rapporto umano era per me prezioso.


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