domenica 20 ottobre 2019

La quiete dopo la tempesta?


Poco meno di un anno fa (non mi piacciono le date rotonde degli anniversari), qualche giorno dopo la tempesta che aveva scarnificato i miei boschi, scrivevo dei tanti che per quei boschi piangevano e di me che piangendo per gli alberi ricordavo che da anni andavo piangendo paesi, comunità, legami, persone e animali perduti per sempre.
Scrivevo che da anni osservavo impotente il disgregarsi di antichi sistemi sociali profondamente solidali, che avevano permesso di vivere in ambiente ostile e che il loro sgretolarsi abbandonava al proprio destino i più fragili e la natura stessa della montagna. Scrivevo allora della doppia faccia di una stessa medaglia, l’abbandono e al contrario l’assedio che le montagne stanno subendo.
In questo quasi anno di quasi lutto ho sentito ripetere una parola per me odiosa, che mi fa tremare come un albero quella notte, cosciente che se rimango in piedi è solo frutto del caso, ma che il bosco andrà perduto e con la perdita del bosco sarà inutile la mia resistenza; la parola sviluppo mi atterrisce.
Forse perché la montagna non ha l’epica del mare, non vi sono stati Hemingway, Melville, Conrad che abbiano cantato le montagne, forse per questo a scuola ci hanno insegnato che occorreva salvare il mare, che i fiumi (ricordo con sgomento la fotografia sul mio sussidiario del fiume Lambro) portavano la morte al mare, ma nessuno ci ha insegnato cosa portava la morte alla montagna, nessuno ha mai osato paragonare le valanghe di cemento e asfalto che andavano ricoprendo le montagne, al petrolio che ricopriva il mare. No, quella profusione di ferro e cemento e asfalto che frantumava senza riguardo il nostro modo di vivere aveva un altro nome: sviluppo.
Vorrei che oggi finalmente si sostituisse la parola menzognera “sviluppo”, con la parola sincera “cura”, vorrei che finalmente ci si prendesse cura della montagna. 
La montagna è malata e per guarire non ha bisogno di pozioni magiche per sviluppare muscoli che non ha e che non ha mai avuto, ha bisogno di essere curata, curata dalle profonde ferite che le abbiamo inferto in questi ultimi cinquanta anni, curata dal mito fasullo della vicinanza a Dio e dell’idillio segantiniano. 
La montagna ha bisogno di cura, che è l’espressione più alta dell’amore. La montagna ha bisogno di mani forti e menti pronte e visioni future.
Prendersi cura della montagna significa prendersi cura di chi vi abita, non di chi vi gioca, una donna, un uomo, una famiglia che decide di abitare la montagna è preziosa, più preziosa di ogni altro bene, di ogni albero, di ogni fiore, di ogni cima immacolata, ma per vivere la montagna le donne e gli uomini hanno bisogno di alberi, di fiori, di cime immacolate e scuole per i figli e trasporti pubblici e assistenza per i vecchi e un negozio di paese e un medico e un prete e qualcuno che chieda come va e che abbia il tempo di ascoltare la risposta.
Prendersi cura della montagna significa rifondare i paesi, dare la possibilità di tornare ad abitare le case abbandonate, di coltivare i campi invasi dai rovi, non di illudersi che il ritiro dell’uomo significhi il ritorno al giardino dell’eden, mai più il lupo pascolerà con l’agnello, l’uomo ha dato la sua impronta alla montagna e adesso non può ritirarsi come se nulla fosse accaduto negli ultimi mille anni.
La cultura dello sviluppo però ha fallito miseramente, altrimenti non saremo qui a piangere le montagne. Bugiardo, diranno i più esperti, e allora Cortina, Madonna di Campiglio, la valle di Fassa? Ecco solo questo, smettiamo di chiamare montagna le dependance ludiche delle città, la montagna non è il parco giochi, la montagna è il luogo dove ci si gioca il futuro della civiltà come la conosciamo oggi. 
Se, prendendocene cura, riusciremo a curare la montagna, potremo applicare la stessa cura al Pianeta e forse ci salveremo.
Tra qualche giorno incominceranno le celebrazioni del 29 ottobre (le celebrazioni non finiscono mai) in tanti avranno modo di parlare, qualcuno si ergerà a maestro e sicuramene come è già successo mi dirà che non capisco nulla, perché lui ha visto, non io e sarà inutile che gli ricordi che se lui ha visto, io ho vissuto e vivo, negherà che i nostri boschi siano stati per la maggior parte “allevamento intensivo” di legname in omaggio allo sviluppo e lo so signore che un bosco non si alleva, si coltiva, ma vede se uno crede a un unico spirito, allora tutto si alleva, vitelli e figli (rigorosamente nell’ordine) e alberi, la differenza sta nel come lo si fa.
Andrea Nicolussi Golo Luserna

9 commenti:

  1. Bentornato Andrea. È sempre un piacere leggerti.
    Inutile dire che sono pienamente d'accordo con te.

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  2. Silvio Eugenio Toldo20 ottobre 2019 alle ore 08:55

    grazie! " Bravo Andrea, come sempre! E' una preghiera che fotografa la tua anima: merita la pubblicazione anche sulla stampa nazionale".

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  3. grazie Andrea per questo scritto

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  4. Tutto scivola a valle: l'acqua, le pietre e anche gli uomini.

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    1. Almeno, in montagna no ghemo mia inondasion, almeno quelo !

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  5. Fintantoché giovani e lavoratori “montanari” impiegano ore e ore per recarsi a scuola, o al lavoro, o per usufruire dei servizi di cui sono privi, pur pagando le tasse, fintantoché la montagna sarà vista unicamente dalla pianura come punto di ritrovo di vacanzieri mordi e fuggi, di cercatori di funghi, di raccoglitori di legna e di fiori abusivi, la montagna sarà destinata a spopolarsi.
    Perché alla montagna non si monetizzano i miliardi di metri cubi di ossigeno che producono i suoi boschi? Tali risorse finanziarie potrebbero essere utilizzate per incentivare la popolazione a rimanervi e le industrie nello sviluppo delle loro attività.

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    1. Ero una bambina di circa 10, 11 anni quando ho visto per la prima volta un cartello che diceva "chi ama la montagna le lascia i suoi fiori "
      Ancora adesso, dopo più di 50 anni, ogni volta che passeggio e vedo le meraviglie che la natura offre non posso non ripensare a quel cartello

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  6. GRANDE ANDREA.Leggo sempre volentieri e condivido cio' che scrivi.A settembre sono stato a LUSERNA con l'intenzione di farti conoscere il nipotino EDO ma al museo mi hanno detto che ora sei a TRENTO.Spero di incontrarti ancora e scambiare quattro chiacchere come abbiamo fatto diverse volte.Un caro SALUTO AGOS & C

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  7. A Golo danno ragione, a Greta danno carne...

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