Poco meno di un anno fa (non mi piacciono le date rotonde degli
anniversari), qualche giorno dopo la tempesta che aveva scarnificato i
miei boschi, scrivevo dei tanti che per quei boschi piangevano e di me
che piangendo per gli alberi ricordavo che da anni andavo piangendo
paesi, comunità, legami, persone e animali perduti per sempre.
Scrivevo che da anni osservavo impotente il disgregarsi di antichi
sistemi sociali profondamente solidali, che avevano permesso di vivere
in ambiente ostile e che il loro sgretolarsi abbandonava al proprio
destino i più fragili e la natura stessa della montagna. Scrivevo allora
della doppia faccia di una stessa medaglia, l’abbandono e al contrario
l’assedio che le montagne stanno subendo.
In questo quasi anno
di quasi lutto ho sentito ripetere una parola per me odiosa, che mi fa
tremare come un albero quella notte, cosciente che se rimango in piedi è
solo frutto del caso, ma che il bosco andrà perduto e con la perdita del
bosco sarà inutile la mia resistenza; la parola sviluppo mi atterrisce.
Forse perché la montagna non ha l’epica del mare, non vi sono stati
Hemingway, Melville, Conrad che abbiano cantato le montagne, forse per
questo a scuola ci hanno insegnato che occorreva salvare il mare, che i
fiumi (ricordo con sgomento la fotografia sul mio sussidiario del fiume
Lambro) portavano la morte al mare, ma nessuno ci ha insegnato cosa
portava la morte alla montagna, nessuno ha mai osato paragonare le
valanghe di cemento e asfalto che andavano ricoprendo le montagne, al
petrolio che ricopriva il mare. No, quella profusione di ferro e cemento
e asfalto che frantumava senza riguardo il nostro modo di vivere aveva
un altro nome: sviluppo.
Vorrei che oggi finalmente si
sostituisse la parola menzognera “sviluppo”, con la parola sincera
“cura”, vorrei che finalmente ci si prendesse cura della montagna.
La
montagna è malata e per guarire non ha bisogno di pozioni magiche per
sviluppare muscoli che non ha e che non ha mai avuto, ha bisogno di
essere curata, curata dalle profonde ferite che le abbiamo inferto in
questi ultimi cinquanta anni, curata dal mito fasullo della vicinanza a
Dio e dell’idillio segantiniano.
La montagna ha bisogno di cura, che è
l’espressione più alta dell’amore. La montagna ha bisogno di mani forti e
menti pronte e visioni future.
Prendersi cura della montagna
significa prendersi cura di chi vi abita, non di chi vi gioca, una
donna, un uomo, una famiglia che decide di abitare la montagna è
preziosa, più preziosa di ogni altro bene, di ogni albero, di ogni
fiore, di ogni cima immacolata, ma per vivere la montagna le donne e gli
uomini hanno bisogno di alberi, di fiori, di cime immacolate e scuole
per i figli e trasporti pubblici e assistenza per i vecchi e un negozio
di paese e un medico e un prete e qualcuno che chieda come va e che
abbia il tempo di ascoltare la risposta.
Prendersi cura della
montagna significa rifondare i paesi, dare la possibilità di tornare ad
abitare le case abbandonate, di coltivare i campi invasi dai rovi, non
di illudersi che il ritiro dell’uomo significhi il ritorno al giardino
dell’eden, mai più il lupo pascolerà con l’agnello, l’uomo ha dato la
sua impronta alla montagna e adesso non può ritirarsi come se nulla
fosse accaduto negli ultimi mille anni.
La cultura dello
sviluppo però ha fallito miseramente, altrimenti non saremo qui a
piangere le montagne. Bugiardo, diranno i più esperti, e allora Cortina,
Madonna di Campiglio, la valle di Fassa? Ecco solo questo, smettiamo di
chiamare montagna le dependance ludiche delle città, la montagna non è
il parco giochi, la montagna è il luogo dove ci si gioca il futuro della
civiltà come la conosciamo oggi.
Se, prendendocene cura, riusciremo a
curare la montagna, potremo applicare la stessa cura al Pianeta e forse
ci salveremo.
Tra qualche giorno incominceranno le celebrazioni
del 29 ottobre (le celebrazioni non finiscono mai) in tanti avranno
modo di parlare, qualcuno si ergerà a maestro e sicuramene come è già
successo mi dirà che non capisco nulla, perché lui ha visto, non io e
sarà inutile che gli ricordi che se lui ha visto, io ho vissuto e vivo,
negherà che i nostri boschi siano stati per la maggior parte
“allevamento intensivo” di legname in omaggio allo sviluppo e lo so
signore che un bosco non si alleva, si coltiva, ma vede se uno crede a
un unico spirito, allora tutto si alleva, vitelli e figli (rigorosamente
nell’ordine) e alberi, la differenza sta nel come lo si fa.
Andrea Nicolussi Golo Luserna
Bentornato Andrea. È sempre un piacere leggerti.
RispondiEliminaInutile dire che sono pienamente d'accordo con te.
grazie! " Bravo Andrea, come sempre! E' una preghiera che fotografa la tua anima: merita la pubblicazione anche sulla stampa nazionale".
RispondiEliminagrazie Andrea per questo scritto
RispondiEliminaTutto scivola a valle: l'acqua, le pietre e anche gli uomini.
RispondiEliminaAlmeno, in montagna no ghemo mia inondasion, almeno quelo !
EliminaFintantoché giovani e lavoratori “montanari” impiegano ore e ore per recarsi a scuola, o al lavoro, o per usufruire dei servizi di cui sono privi, pur pagando le tasse, fintantoché la montagna sarà vista unicamente dalla pianura come punto di ritrovo di vacanzieri mordi e fuggi, di cercatori di funghi, di raccoglitori di legna e di fiori abusivi, la montagna sarà destinata a spopolarsi.
RispondiEliminaPerché alla montagna non si monetizzano i miliardi di metri cubi di ossigeno che producono i suoi boschi? Tali risorse finanziarie potrebbero essere utilizzate per incentivare la popolazione a rimanervi e le industrie nello sviluppo delle loro attività.
Ero una bambina di circa 10, 11 anni quando ho visto per la prima volta un cartello che diceva "chi ama la montagna le lascia i suoi fiori "
EliminaAncora adesso, dopo più di 50 anni, ogni volta che passeggio e vedo le meraviglie che la natura offre non posso non ripensare a quel cartello
GRANDE ANDREA.Leggo sempre volentieri e condivido cio' che scrivi.A settembre sono stato a LUSERNA con l'intenzione di farti conoscere il nipotino EDO ma al museo mi hanno detto che ora sei a TRENTO.Spero di incontrarti ancora e scambiare quattro chiacchere come abbiamo fatto diverse volte.Un caro SALUTO AGOS & C
RispondiEliminaA Golo danno ragione, a Greta danno carne...
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