Dopo aver ricostruito le case, ripristinato gli orti spesso disseminati di improvvisate sepolture con precarie croci, ripuliti i pascoli dagli ordigni bellici, gli altopianesi si sono rivolti ai boschi.
I danni erano tanti e si sommavano a quelli di prima della guerra procurati dalle greggi di pecore e capre; i versanti nord retrostanti i villaggi da Rotzo a Foza avevano già un aspetto lunare prima del conflitto.
Nel 1927 in tutto l'Altopiano la Forestale per rimediare ai danni di guerra aveva incentivato la monocultura di abeti rossi; molti vivai sono stati aperti sull'Altopiano, tra la Cattedra di Canove, Camporosà di Rotzo e il Mosca al Turcio. Lì si rifornivano i gruppi di lavoro per mettere a dimora le pianticelle nei boschi di uso civico.
Nel 1925 il fascismo aveva trasformato i secolari beni delle proprietà collettive in beni di uso civico, un chiaro intento per togliere potere alle comunità locali statalizzando e incorporando le antiche Regole della Reggenza.
Nel comune di Roana si sono formati più gruppi di lavoro, Bernar, Zanotelli e Slaviero, composti di uomini, donne e anziani che hanno impiantato migliaia di abeti nei boschi devastati della Val d'Assa, tra il Termine, la Val Renzola e il Ghertele. A sovrintendere i lavori tre notabili del comune, il commendatore Antonio Frigo dei Maestri di Canove, podestà di Roana, già sindaco durante la ricostruzione che gli era valso il titolo onorifico; il dottor Giovanni Frigo Milo, farmacista di Canove, corrispondente della Gazzetta Fascista, appassionato di silvicultura e lotta al bostrico; Giovanni Muraro di Camporovere che gestiva l'ufficio di emigrazione, un'emorragia che di lì a poco, chiusi i cantieri, riprese a falcidiare l'Altopiano.
Proprio dalla figlia di uno di questi emigrati, nel 1927, subito dopo aver partecipato ai lavori boschivi, mi è arrivata la foto pubblicata in copertina.
Era un Frigo di Canove imbarcatosi per l'Australia sulla Regina d'Italia con altri due Frigo.
Gli anni '60
In quegli allegri anni del boom edilizio delle seconde case sono stati i privati a ricevere gratuitamente le pianticelle, venivano così riportati a bosco i pascoli ormai privi di mucche; si era passati dalle piccole stalle a conduzione famigliare, dove le mucche venivano condotte al pascolo giornalmente, alle grandi “stalle di concentramento a soluzione finale” dove i bovini non vedono più la luce del sole e l'erba dei prati.
Questi boschi nulla hanno a che vedere con le antiche foreste miste di un tempo che crescevano in forma libera ed anarchica; i loro alberi inquadrati in bell'ordine come soldatini sono rimasti privi di manutenzione, cresciuti verso l'alto in competizione tra loro per raggiungere la luce, buona parte di essi soccombono nell'ombra senza raggiungere la meta e si schiantano o si flettono rinsecchiti nelle forme più strane come a chiedere aiuto.
Ma anche quelli che ce l'hanno fatta a crescere sono troppo alti e deboli e alle prime folate di vento vengono divelti mettendo tristemente a nudo le loro povere radici.
A riguardo del disastro annunciato di qualche giorno fa mi rifaccio all'intervista rilasciata al Giornale di Vicenza di oggi da Daniele Zovi, generale in pensione della Forestale; nella parte finale un'ammenda agli errori del passato, se lo dice lui...
«Questo disastro potrebbe però rappresentare un'opportunità per ripensare i boschi dell'Altopiano, ampliando la biodiversità arborea sostituendo i boschi “monotematici” di abete rosso con latifoglie come faggio, acero, ciliegio selvatico, e sorbo dell'uccellatore, che potrebbero contribuire ad evitare altri disastri simili»
Consiglio anche la sua recente pubblicazione:
“Alberi sapienti antiche foreste. Come guardare, ascoltare e avere cura del bosco"
All'interno molti contributi dell'amico Gianni Rigoni Stern.
Giorgio Spiller
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