... Anche l'Italia, per non essere da meno, occupò l'Albania. Ormai i nostri giovani erano sempre meno lavoratori e sempre più soldati. Partivano coscritti di leva, diciotto mesi di servizio, poi il congedo, per essere quasi subito richiamati. Partivano cantando sulla traballante corriera dei F.lli Leoni. Arrivava da Lastebasse sempre piena, così i coscritti salivano sul tetto fra le valigie e i sacchi della posta. Arrivati ad Arsiero, proseguivano in treno per Vicenza. Il locale Distretto provvedeva a smistarli e ad assegnarli ai vari corpi: alpini, artiglieri, fanti ecc.
La guerra si stava avvicinando a grandi passi anche per l'Italia.
Quello doveva essere un giorno di festa: il paese era imbandierato. Nel pomeriggio, tutti in adunata nella piazza, ad ascoltare il proclama del Capo: era scoppiata la guerra contro la Francia e l'Inghilterra.
Con l'entusiasmo delle feste nazionali, la gente si accalcava: uomini, donne, ragazzi di tutte le età. Mentre la piazza si andava riempiendo, i dirigenti si davano un gran daffare nel sistemare la radio con l'altoparlante, in modo che tutti potessero udire. L'apparecchio era sul pergolo dell'osteria, all'angolo della piazza. Era stato prestato dalla Levatrice, una delle poche persone a possederne uno. Il marito manovrava per una migliore audizione. Finalmente, tra gracchi, fischi ed altri rumori strani, da quella scatola uscì la voce del Capo che annunciava solennemente: la guerra era dichiarata, le nostre truppe di terra, di mare e di aria avevano dato inizio alle operazioni militari: le truppe alpine sul fronte fracese e le forze coloniali in Etiopia e sul fronte libico, appoggiate da potenti forze aereonavali.
Tutti ascoltavano quella voce forte, sicura; molti applaudivano con incosciente entusiasmo giovanile; un po' meno gli anziani che più di vent'anni prima avevano combattuto sul Piave, sul Grappa, sull'Altipiano di Asiago.
Alcuni di loro ne portavano i segni sul proprio corpo: Ninato, il guardaboschi, senza un braccio, con la manica vuota sempre infilata nella tasca della giubba; Fontana, l'elettricista, che zoppicava vistosamente; Guido, il falegname, con una scheggia ancora ella carne... e le vedove ancora vestite di nero. Ma l'entusiasmo non considerava tutto questo: questa volta non sarebbe durata a lungo, sarebbe stata una "guerra lampo", sarebbe durata poco tempo, sarebbe finita con la nostra vittoria.
La trasmissione era finita. La gente in capannelli si fermava a commentare. Quella era stata una bella giornata di sole.
Improvvisamente una nuvola grigiastra scese con fragore dalla montaga. Grossi chicchi di grandine cadevano come sassate. Tutti corsero ai ripari nelle case. La grandinata durò poco, presto ritornò il sereno e la gente uscì di nuovo in strada a commentare le notizie appena trasmesse.
La Marianna, vedova di guerra, era imbronciata: Questo è un brutto presagio. Vedrete, la guerra finità con l'arrivare anche nella nostra Valle, dovremo andare ancora profughi...
Si ricordava di quel 24 maggio 1915 quando, in tutta fretta, aveva dovuto abbandonare la casa e, con poche cose, fuggire, andare profuga con un figlio di pochi mesi e il marito lontano, militare. Si ricordava di quella fiumana di gente che fuggiva, quasi inseguita dalle cannonate sparate dal Forte Belvedere. Rivedeva le facce dei soldati che salivano verso quella che era divenuta la prima linea. Le ritornava alla mente la visione delle bombe che scoppiavano come stelle malefiche sulle rocce di Campolongo, dove anche lei aveva lavorato, portando acqua e cemento, alla costruzione del Forte.
Rivedeva le tremende esplosioni sbrecciare il cemento, sollevare nuvole di frammenti, sconquassare il terreno, seminare distruzione e morte. Ricordava la vita da profuga, la morte del marito al fronte, la grande solitudine... No, a lei quel giorno ricordava troppe cose tristi: la guerra le aveva rovinato l'esistenza, on voleva sentirne parlare.
Era il 10 giugno 1940. (alla prossima)
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