[Gianni Spagnolo © 22G4]
Non saprei in che data arrivarono da Catinòn le innovative canne rigide in PVC grigio per passare i cavi della luce. Sostituivano quelle usate fino ad allora, fatte, mi pare, in lamina di piombo rivestita all’interno d’un isolante nero un po’ peloso per agevolare il passaggio dei conduttori elettrici rigidi. Non che a noi bociasse interessassero gli impianti della luce, solo che con quei tubi di plastica si potevano fabbricare facilmente delle micidiali cerbottane multi-canna. Prima d’allora era la natura che ci forniva il materiale necessario per i nostri esperimenti bellici, ma il lavoro di preparazione richiedeva molta più pazienza e abilità: era lo stciopéto o stcioparólo de sanbugaro.
Da noi i sanbugari fiorivano rigogliosi nella tarda primavera, con le loro appariscenti infiorescenze ombrelliformi dall’inebriante profumo. C’era chi le raccoglieva per fare lo sciroppo, ma non era quello il nostro interesse. Il sanbugaro ha un legno un po’ insulso, ma che si prestava benissimo agli usi dei nostri bàgoli, dato che poteva essere facilmente lavorato con l’unico attrezzo che avevamo sempre in tasca, la roncoléta o el corteléto.
El sanbugaro aveva i rami con un midollo molto grosso, bianco, leggerissimo e compatto e che si staccava facilmente dall’alburno, consentendo di ricavarne delle canne vuote. Ecco che allora si tagliava un ramo di almeno tri schéi di diametro e lungo circa trenta. Si estraeva la meòla, ossia l’anima interna morbida e leggera, ottenendo così la canna da sparo del stcioparólo, con un calibro di circa un schéo, o giù di lì.
Poi si tagliava un bachéto di cornolaro, largo un fià manco del calibro e lo si lissiava pulito. El cornolaro el nava de oro par far da pistòn perché era rigido e di grana fine, inoltre, quando privato della corteccia, el suàva, e così era praticamente autolubrificante.
A parte si confezionavano i proiettili, costituiti da stoppa, carta o filamenti di spago, masticati a lungo per renderli belli compatti. Introdotto un proiettile nella canna, con il bachetélo lo si spingeva molto avanti, quasi sulla bocca; quindi si introduceva nella canna un secondo proiettile e poi lo si schissava rénto col pistòn de cornolaro premuto di scatto sul petto, tendendo con due mani la canna puntata verso il bersaglio. Avveniva quindi che il primo proiettile inserito, sospinto dall’aria compressa, usciva di scatto, col rumore d’un piccolo scoppio, mentre l’altro, che aveva compresso l’aria, si sostituiva al proiettile espulso, rimanendo sulla bocca del stciopéto, pronto ad essere espulso nel tiro successivo. Vabbé, la tecnologia era quella che era, l’avremmo affinata magari qualche lustro più avanti su al Lanzo, ma l’importante era ottenere un bel stciòco e tirare più distante dei compagni.
Era un gioco povero ma antico, di cui si sono perse le tracce. La sua elementare tecnologia non è probabilmente neanche più alla portata dei nostri figli e nipoti, che non sanno neanche com’è fatto il sanbugaro, per tacere di come lavorarlo per ottenerne un rudimentale stciopéto. Anche far stcioparùi non sarebbe più accettato: giochi troppo bellicosi! Taré che òmeni che vegnarà fora, cavandoghe cuél crèn che senpre i ga bìo i boce.
Nessun commento:
Posta un commento