L’IMPEGNO NELLA
FORMAZIONE E IN CATTEDRALE
L’assemblea che canta,
il rinnovamento di don Alberto.
A qualche giorno dal
funerale di don Alberto Carotta, riprendiamo i filoni principali del suo
rinnovamento della musica sacra e della liturgia.
di Paolo Delama
Che l’amore per la
musica e la pratica musicale fosse molto diffusa al suo paese natale,
è don Alberto stesso a scriverlo nel suo libro “Le nostre radici:
Brancafora”; e che la sua bella voce spiccasse su quella di molti
altri chierici, negli anni del Seminario, è altrettanto noto. Tanto
più che don Alberto aveva anche “l’orecchio assoluto”, che in
gergo indica la capacità di intonare correttamente nella tonalità
senza avere un diapason di riferimento. Se tutto questo bastasse per
mandarlo a Roma a studiare musica sacra non lo sappiamo. Per certo,
con gli studi romani sfumavano anche tutti i suoi desideri di poter
andare in cura d’anime. E questo è stato un cruccio che lo ha
accompagnato fino agli ultimi giorni.
I cinque anni trascorsi
al Pontificio di Musica Sacra (dal 1957 al 1962) lo portarono a
maturare il magistero in Canto gregoriano e la licenza in
composizione. Una formazione accademica classica, “romana”, che,
tuttavia, portava linfa nella stagione della riforma conciliare
incipiente.
Di ritorno da Roma,
questi i suoi stessi ricordi, il dramma di organizzare e animare con
il canto il Triduo pasquale in Cattedrale dove era stato cooptato: da
una parte i Riti della Settimana Santa, già riformati nel 1955, e
mons. Iginio Rogger (con il quale aveva cominciato a collaborare)
attento a declinarli con la sua nota puntualità, dall’altra un
repertorio in italiano che ancora non era stato composto; la
primavera del Vaticano II che chiedeva una partecipazione più
diffusa anche nel canto proiettava definitivamente don Alberto in una
pastorale liturgica rinnovata, dove le soluzioni andavano ricercate,
sperimentate, selezionate. La stessa Cattedrale era sguarnita di una
corale: gli splendori del coro dei chierici guidato da mons. Eccher
erano tramontati prima del previsto a causa delle crisi di vocazioni;
la Scuola di Musica Sacra gli era stata consegnata come se il periodo
ecclesiale del tempo assomigliasse più ad un tramonto che non
all’alba. Questo fu l’inizio del ministero di don Alberto nella
Chiesa di Trento.
Se vogliamo riassumere –
pur semplificando – la sua opera per la musica sacra, possiamo
ricondurla su tre filoni.
Un repertorio per
un’assemblea celebrante: componendo lui stesso ritornelli e
acclamazioni, facendosi aiutare da alcuni compositori che aveva
chiamato nell’insegnamento alla Scuola di musica sacra (come
Camillo Moser), cercando esempi virtuosi, cominciò il lungo e
faticoso cammino per la formazione di un repertorio comune nella
diocesi. Certo, i tempi erano quelli delle “Messe beat” (con
tanto di chitarre e batteria) e all’’inizio, si confidava, la
novità pareva aderire alle istanze conciliari.
Quando tuttavia, ci si
rese conto che tale repertorio non portava ad una piena e autentica
partecipazione al canto, la novità assunse il sapore di un
tradimento: non bastava avere dei testi in italiano, non bastava
intercettare il “gusto musicale” del momento; tale repertorio
rimaneva relegato al gruppo di cantori senza riuscire a divenire
patrimonio per una partecipazione piena e convinta e, spesso, senza
interpretare davvero quanto si andava celebrando.
Per questo diveniva
provvidenziale la collaborazione nel Triveneto con le altre diocesi:
da “Cantiamo la Messa” (1969) a “Il Libro della preghiera”
(1977) si arrivò alla costituzione di un repertorio credibile e
praticabile per le nostre assemblee. E le esperienze ecclesiali, con
le grandi assemblee liturgiche connesse, del Congresso eucaristico
(1983), del Sinodo (1986), della visita del Papa (1995),
della Peregrinatio martyrum, del Giubileo ecc., erano
occasioni per rilanciare a coristi e fedeli canti nuovi e duraturi
che si sono sedimentati nel repertorio attuale, affermando di fatto
la centralità dell’assemblea e il canto come atto celebrativo
privilegiato. La stessa riscoperta del Salmo responsoriale da cantare
“di norma” ci indica quanto la Parola fosse radicata nella sua
esperienza spirituale e che questa passione venisse ancor prima di
quella per la liturgia potrebbe essere attestato da molti di coloro
che l’hanno conosciuto da vicino, soprattutto i più fortunati che
hanno potuto frequentare il Gruppo della Parola che egli guidò
appassionatamente per cinquant’anni.
Una Scuola da rilanciare: l’eredità
che gli era stata consegnata era una Scuola che interpretava le
difficoltà del cambiamento liturgico che era anche sulle spalle dei
direttori di coro e degli organisti in cerca di orientamento, di
identità, di repertorio... Attraverso una schiera di giovani
organisti – che dalla Scuola erano passati in Conservatorio con il
maestro Giancarlo Parodi (altro collaboratore importante), e dal
Conservatorio erano tornati, poi, come insegnanti e formatori, la
Scuola si ricostituì presto come punto di riferimento in diocesi per
la formazione di generazioni di musicisti. La sua guida per
quasi cinquant’anni è un’impronta indelebile.
Una Cattedrale da
onorare: non solo nelle celebrazioni con il Vescovo, ma anche
nella dimensione parrocchiale era necessario rilanciare le
celebrazioni del Duomo come esempio per tutta la diocesi; i primi timidi
esperimenti – siamo nel 1962 - con un piccolo gruppo di studenti
delle medie del Seminario, o l’impiego della Corale cittadina per
le solennità, o la chiamata a turno di alcuni cori, avevano più il
sapore dell’appalto in mancanza di altre risorse e presto cedettero
all’azione coraggiosa e radicale che ricompose un coro nel febbraio
del 1982: un coro di laici che egli seppe accompagnare e far crescere
nell’amore alla liturgia, alla Parola, al bel canto, un canto da
condividere e gustare, domenica dopo domenica in quella dimensione
fraterna di Chiesa che tanto piaceva a don Alberto.
Da ultimo, la preghiera
che più gli stava a cuore: il canto dei Vespri, la preghiera che si
eleva come profumo soave nella lode della sera. Non mancava mai, in
Cattedrale, a questo appuntamento. Gli piaceva il gesto gratuito
insito in questa preghiera, dove, ancora una volta, i Salmi venivano
gustati perché, nel cantarli, mente e cuore e voce si sintonizzavano
sulla Parola, e sulla Parola, a ben vedere, sintonizzava così anche
la sua vita.
Il gesto tipico di don
Carotta nel suo servizio in Duomo
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