giovedì 6 agosto 2020

Per chi desidera qualche informazione in più su don Alberto Carotta, recentemente scomparso, uno stralcio apparso sui quotidiani trentini

L’IMPEGNO NELLA FORMAZIONE E IN CATTEDRALE

L’assemblea che canta, il rinnovamento di don Alberto.


A qualche giorno dal funerale di don Alberto Carotta, riprendiamo i filoni principali del suo rinnovamento della musica sacra e della liturgia.


di Paolo Delama


Che l’amore per la musica e la pratica musicale fosse molto diffusa al suo paese natale, è don Alberto stesso a scriverlo nel suo libro “Le nostre radici: Brancafora”; e che la sua bella voce spiccasse su quella di molti altri chierici, negli anni del Seminario, è altrettanto noto. Tanto più che don Alberto aveva anche “l’orecchio assoluto”, che in gergo indica la capacità di intonare correttamente nella tonalità senza avere un diapason di riferimento. Se tutto questo bastasse per mandarlo a Roma a studiare musica sacra non lo sappiamo. Per certo, con gli studi romani sfumavano anche tutti i suoi desideri di poter andare in cura d’anime. E questo è stato un cruccio che lo ha accompagnato fino agli ultimi giorni.

I cinque anni trascorsi al Pontificio di Musica Sacra (dal 1957 al 1962) lo portarono a maturare il magistero in Canto gregoriano e la licenza in composizione. Una formazione accademica classica, “romana”, che, tuttavia, portava linfa nella stagione della riforma conciliare incipiente.

Di ritorno da Roma, questi i suoi stessi ricordi, il dramma di organizzare e animare con il canto il Triduo pasquale in Cattedrale dove era stato cooptato: da una parte i Riti della Settimana Santa, già riformati nel 1955, e mons. Iginio Rogger (con il quale aveva cominciato a collaborare) attento a declinarli con la sua nota puntualità, dall’altra un repertorio in italiano che ancora non era stato composto; la primavera del Vaticano II che chiedeva una partecipazione più diffusa anche nel canto proiettava definitivamente don Alberto in una pastorale liturgica rinnovata, dove le soluzioni andavano ricercate, sperimentate, selezionate. La stessa Cattedrale era sguarnita di una corale: gli splendori del coro dei chierici guidato da mons. Eccher erano tramontati prima del previsto a causa delle crisi di vocazioni; la Scuola di Musica Sacra gli era stata consegnata come se il periodo ecclesiale del tempo assomigliasse più ad un tramonto che non all’alba. Questo fu l’inizio del ministero di don Alberto nella Chiesa di Trento.

Se vogliamo riassumere – pur semplificando – la sua opera per la musica sacra, possiamo ricondurla su tre filoni.

Un repertorio per un’assemblea celebrante: componendo lui stesso ritornelli e acclamazioni, facendosi aiutare da alcuni compositori che aveva chiamato nell’insegnamento alla Scuola di musica sacra (come Camillo Moser), cercando esempi virtuosi, cominciò il lungo e faticoso cammino per la formazione di un repertorio comune nella diocesi. Certo, i tempi erano quelli delle “Messe beat” (con tanto di chitarre e batteria) e all’’inizio, si confidava, la novità pareva aderire alle istanze conciliari.

Quando tuttavia, ci si rese conto che tale repertorio non portava ad una piena e autentica partecipazione al canto, la novità assunse il sapore di un tradimento: non bastava avere dei testi in italiano, non bastava intercettare il “gusto musicale” del momento; tale repertorio rimaneva relegato al gruppo di cantori senza riuscire a divenire patrimonio per una partecipazione piena e convinta e, spesso, senza interpretare davvero quanto si andava celebrando.

Per questo diveniva provvidenziale la collaborazione nel Triveneto con le altre diocesi: da “Cantiamo la Messa” (1969) a “Il Libro della preghiera” (1977) si arrivò alla costituzione di un repertorio credibile e praticabile per le nostre assemblee. E le esperienze ecclesiali, con le grandi assemblee liturgiche connesse, del Congresso eucaristico (1983), del Sinodo (1986), della visita del Papa (1995), della Peregrinatio martyrum, del Giubileo ecc., erano occasioni per rilanciare a coristi e fedeli canti nuovi e duraturi che si sono sedimentati nel repertorio attuale, affermando di fatto la centralità dell’assemblea e il canto come atto celebrativo privilegiato. La stessa riscoperta del Salmo responsoriale da cantare “di norma” ci indica quanto la Parola fosse radicata nella sua esperienza spirituale e che questa passione venisse ancor prima di quella per la liturgia potrebbe essere attestato da molti di coloro che l’hanno conosciuto da vicino, soprattutto i più fortunati che hanno potuto frequentare il Gruppo della Parola che egli guidò appassionatamente per cinquant’anni.
Una Scuola da rilanciare: l’eredità che gli era stata consegnata era una Scuola che interpretava le difficoltà del cambiamento liturgico che era anche sulle spalle dei direttori di coro e degli organisti in cerca di orientamento, di identità, di repertorio... Attraverso una schiera di giovani organisti – che dalla Scuola erano passati in Conservatorio con il maestro Giancarlo Parodi (altro collaboratore importante), e dal Conservatorio erano tornati, poi, come insegnanti e formatori, la Scuola si ricostituì presto come punto di riferimento in diocesi per la formazione di generazioni di musicisti. La sua guida per quasi cinquant’anni è un’impronta indelebile.

Una Cattedrale da onorare: non solo nelle celebrazioni con il Vescovo, ma anche nella dimensione parrocchiale era necessario rilanciare le celebrazioni del Duomo come esempio per tutta la diocesi; i primi timidi esperimenti – siamo nel 1962 - con un piccolo gruppo di studenti delle medie del Seminario, o l’impiego della Corale cittadina per le solennità, o la chiamata a turno di alcuni cori, avevano più il sapore dell’appalto in mancanza di altre risorse e presto cedettero all’azione coraggiosa e radicale che ricompose un coro nel febbraio del 1982: un coro di laici che egli seppe accompagnare e far crescere nell’amore alla liturgia, alla Parola, al bel canto, un canto da condividere e gustare, domenica dopo domenica in quella dimensione fraterna di Chiesa che tanto piaceva a don Alberto.

Da ultimo, la preghiera che più gli stava a cuore: il canto dei Vespri, la preghiera che si eleva come profumo soave nella lode della sera. Non mancava mai, in Cattedrale, a questo appuntamento. Gli piaceva il gesto gratuito insito in questa preghiera, dove, ancora una volta, i Salmi venivano gustati perché, nel cantarli, mente e cuore e voce si sintonizzavano sulla Parola, e sulla Parola, a ben vedere, sintonizzava così anche la sua vita.



Il gesto tipico di don Carotta nel suo servizio in Duomo



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