Il mio paese era terra di grano, di orzo, di avena. Siamo nati là, sopra
gli ultimi piani, prima dei dirupi della Val d’Assa, in un luogo dove
cantava la quaglia che faceva il suo tenero nido tra i campi biondi del
grano. “Sotto la neve pane” così diceva il proverbio della nonna. Ma
quanta strada, quanto tempo, quanto sudore per avere quel buon pane
fresco. La storia lunga, faticosa storia di speranza, cominciava in un
solco arato nella terra scura, in autunno. Poi il chicco sparso sul
terreno iniziava il suo cammino e un altro lungo cammino, aveva inizio
nel cuore di ogni agricoltore. La neve, la brina e il gelo stendevano la
loro bianca coperta sul mondo sommerso dei semi e poi il sole di marzo
arrivava per scaldare il cuore delle piante nuove. E la pioggia di
aprile nutriva quei teneri steli e via, via le verdi spighe riempivano i
campi del mio paese e ondeggiavano al vento di maggio, come un mare di
smeraldo. Rossi papaveri, tanti, e azzurri fiordalisi riempivano il
cuore di chi aveva occhi per vedere. L’attesa era finita e le donne ora
mostravano, pudiche, qualche lembo della loro pelle bianca scoprendosi
al sole, per il caldo della mietitura. Con il fazzoletto annodato dietro
al capo, o con larghi cappelli di paglia, mietevano il grano
raccogliendolo in mazzi dorati; i ragazzi e le ragazze lo ammucchiavano
in alti covoni e gli uomini caricavano sui carri il prezioso raccolto
per portarlo alla “macchina del frumento!” Così noi chiamavamo la grande
trebbiatrice che, dopo la fatica per l'afosa mietitura in campagna,
arrivava, per qualche giorno per la trebbiatura, al fresco, sui monti.
Con una carovana di trattori e un grigio camion, arrivava una grande, un’enorme “scatola” rossa, piena di volani, di ruote, di cinghie e sportelli: un mostro ai nostri occhi che inghiottiva quintali di spighe per dare altrettanti quintali di grano e crusca e paglia, color oro, per il letto delle mucche in inverno. La comitiva della famiglia dei trebbiatori si sistemava nel campo sportivo del paese e la trebbiatrice iniziava il suo lavoro accompagnato dal rumore continuo, assordante del grosso trattore che le dava vita facendo girare le lunghe cinghie di corda grezza su ruote, su cento pulegge e volani. Scoppi, colpi ritmici, cinghie di dura gomma che nitrivano sotto lo sforzo della meccanica, grida di bambini, voci tonanti di uomini che ordinavano il lavoro da fare, canzoni di festa... era una gioia, per tutti! E da una bocca, sul retro di questo enorme “scatolone” rosso di legno e lamiera che inghiottiva, forcata dopo forcata, interi carri di spighe, usciva assieme a una nuvola di polvere finissima e profumata, un ruscello impetuoso, una cascata di semi di grano che andavano a riempire uno, due, dieci e cento sacchi, da portare al mulino. Da un’altra bocca, più piccola, uscivano i semi di scarto o quelli dei fiordalisi, dei papaveri e del loglio, la celebre zizzania, che noi conoscevamo anche per la parabola del Vangelo! Questi semi erano cibo per le nostre galline, mentre i sacchi di buon grano erano caricati sui rimorchi dei pochi trattori e, ancora, sui carri trainati dagli ultimi cavalli o dalle mucche. Era la festa del paese, era l’avverarsi di un sogno e la fine di un’attesa durata mesi, iniziata a ottobre tra i solchi scuri della terra. “ Sotto la neve pane” diceva il proverbio... assieme al sudore degli uomini e degli animali, al silenzio della neve, con il canto delle quaglie e i seni delle donne chine a mietere le spighe mature, seni sbirciati furtivamente da noi ragazzini, con le canzoni e le preghiere di ringraziamento. La mietitura, la trebbiatura… Per noi, allora, solo: “Xè rivà la macchina del frumento!”
Con una carovana di trattori e un grigio camion, arrivava una grande, un’enorme “scatola” rossa, piena di volani, di ruote, di cinghie e sportelli: un mostro ai nostri occhi che inghiottiva quintali di spighe per dare altrettanti quintali di grano e crusca e paglia, color oro, per il letto delle mucche in inverno. La comitiva della famiglia dei trebbiatori si sistemava nel campo sportivo del paese e la trebbiatrice iniziava il suo lavoro accompagnato dal rumore continuo, assordante del grosso trattore che le dava vita facendo girare le lunghe cinghie di corda grezza su ruote, su cento pulegge e volani. Scoppi, colpi ritmici, cinghie di dura gomma che nitrivano sotto lo sforzo della meccanica, grida di bambini, voci tonanti di uomini che ordinavano il lavoro da fare, canzoni di festa... era una gioia, per tutti! E da una bocca, sul retro di questo enorme “scatolone” rosso di legno e lamiera che inghiottiva, forcata dopo forcata, interi carri di spighe, usciva assieme a una nuvola di polvere finissima e profumata, un ruscello impetuoso, una cascata di semi di grano che andavano a riempire uno, due, dieci e cento sacchi, da portare al mulino. Da un’altra bocca, più piccola, uscivano i semi di scarto o quelli dei fiordalisi, dei papaveri e del loglio, la celebre zizzania, che noi conoscevamo anche per la parabola del Vangelo! Questi semi erano cibo per le nostre galline, mentre i sacchi di buon grano erano caricati sui rimorchi dei pochi trattori e, ancora, sui carri trainati dagli ultimi cavalli o dalle mucche. Era la festa del paese, era l’avverarsi di un sogno e la fine di un’attesa durata mesi, iniziata a ottobre tra i solchi scuri della terra. “ Sotto la neve pane” diceva il proverbio... assieme al sudore degli uomini e degli animali, al silenzio della neve, con il canto delle quaglie e i seni delle donne chine a mietere le spighe mature, seni sbirciati furtivamente da noi ragazzini, con le canzoni e le preghiere di ringraziamento. La mietitura, la trebbiatura… Per noi, allora, solo: “Xè rivà la macchina del frumento!”
A Rotzo… mezzo secolo fa.
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