Fu un venerdì di fine settembre che gli uomini, dopo
aver ascoltato le previsioni del tempo alla radio, decisero che
l’indomani si sarebbe dato inizio alla vendemmia.
I proprietari delle
vigne, avevano predisposto tutto ciò che serviva per dare inizio
all’evento più importante dell’anno. Tutti i raccolti avevano la loro
importanza, il grano, il granturco, il fieno, tutti i prodotti della
terra coltivata meritavano attenzioni particolari, ma il fascino della
vendemmia era diverso. Era una festa nella festa, un evento capace di
catalizzare l’attenzione del mondo contadino intorno a sè.
Noi ragazzi eravamo in fibrillazione già da tempo, i
più grandicelli speravano nella visione prolungata delle grazie delle
pigiatrici e di quanto si sarebbe potuto mangiare.
Gli adulti
responsabili, invece, erano tesi e preoccupati, temevano che qualcosa
potesse non andare per il verso giusto. Una pioggia, una giornata umida,
il vento. La loro ansia si poteva sentirla quasi sulla pelle.
Le donne, più pratiche, sapevano che era in programma
un bel po’ di fatica supplementare oltre a quella solita di tutti i
giorni.
Da parte mia ero solo curioso di assistere a
quest'evento, ne avevo tanto sentito parlare per tutta l’estate, ma non
avevo idea di cosa mi aspettava. Mio zio, nonostante fosse impiegato al
comune, e quindi non aveva niente a che fare con quei lavori, era
eccitato quanto lo erano i contadini. L’amicizia e il senso di
solidarietà, che da sempre regnava in quella corte, facevano in modo che
tutti fossero coinvolti.
La festa più grande, con il maggior numero d'uomini e
donne, era del “Baffo” il nostro vicino di casa. Per finire il ciclo
completo, dal raccolto, alla pigiatura e alla messa nei tini a
fermentare, passavano diversi giorni, durante i quali, dall’alba al
tramonto, erano tutti impegnati senza tregua.
Venne il giorno fissato e fin dalle prime luci ad
ognuno fu assegnato un compito che doveva svolgere in fretta e nel modo
giusto. Noi bambini facevamo la spola, da chi raccoglieva l’uva e il
carro che aspettava l’arrivo delle ceste colme.
Era tutto un correre sù e giù per i filari, portando i
cestini pieni al carro e quelli vuoti ai raccoglitori. Nelle ore più
calde c’era una pausa e allora noi, addetti alle ceste, portavamo
l’acqua per dissetare i lavoranti.
Al tocco tutti fermi, mezz’ora, per il pranzo che era consumato sul posto.
A quello provvedevano le donne, ogni moglie, sorella o
figlia, in grado di cucinare, preparava qualcosa e, al tocco si
aprivano i fardelli, i panieri contenenti le cibarie e, in quel breve
tempo, tutti sull’erba a mangiare e bere.
Il pasto non doveva essere molto pesante, c'erano
poche semplici cose, energetiche e leggere, perché c’era ancora del
lavoro da fare e bisognava essere in grado di poter continuare. Il pasto
vero e proprio si faceva la sera. Mangiavamo tutti insieme sull'aia un
pasto collettivo. A pagare era il Baffo perché sua era la vigna da
vendemmiare. Spesso s’intonavano canti, ma duravano poco, nel giro di
poco tempo il silenzio regnava sovrano. La stanchezza prendeva tutti e
l’indomani si ricominciava daccapo. Per quanto mi sforzai di cercare,
fra gli addetti ai lavori, non vidi mai la ragazza che avevo incontrato
nei giorni precedenti.
Pensai che fosse andata via, ma mi venne in mente che
lei era stata pagata per pigiare l’uva, ed ora non era ancora il tempo.
Venne tuttavia presto il momento di iniziare la pigiatura, allora si
preparò il grande tino che doveva accogliere l’uva, poi furono chiamate
le ragazze. Quello era il momento che i giovani maschi aspettavano.
Fecero circolo tutt’intorno e si prepararono ad assistere allo
spettacolo. Arrivarono cantando un buon numero di giovani donne. Alcune
previdenti, si erano messe in calzoncini corti, altre con vestitini
leggeri di cotone. Si tolsero le scarpe e, tramite una scala messa per
l’occorrenza, salirono fino all'orlo del grande tino, si tuffarono
ridendo e strillando nell’enorme vasca piena di grappoli di uva appena
colta.
Accompagnate da canti e battute di mano, le ragazze,
diedero inizio alla cerimonia. Sembravano danzare su quei grappoli, su
e giù quasi a tempo di musica. In poco tempo le gambe bianche e robuste
diventarono prima rosse, poi viola, a decine, i chicchi spiaccicati,
rimanevano attaccati alle cosce come nere sanguisughe. Dal foro
praticato in basso nel tino usciva un rigagnolo di liquido profumato.
Solo il respirare quegli effluvi faceva girare la testa
a noi ragazzini. Io, mio cugino e tutti gli altri, eravamo su di giri
eccitati al massimo. Ci univamo agli uomini che incitavano sempre di più
le ragazze ad accelerare il ritmo, ma le poverine dopo l’euforia
iniziale cominciavano a sentire il peso dello sforzo e la danza
diventava sempre più un movimento lento, cadenzato e senza forze. Furono
fatte fermare e poi le sollevarono di peso fuori dalla grande vasca.
Erano veramente esauste.
Si massaggiavano le estremità con smorfie di dolore
cercando di asciugarsi alla meglio. In un tripudio di gambe, cosce e
pizzi nascosti, rimasero sulle panche a riprendersi.
Nel frattempo un altro gruppo di ragazze sostituì le
prime e i canti ripresero. Era notte fatta. La luna era alta nel cielo.
La giostra del vino era finita. In tutto quel tempo io non avevo perso
di vista le ragazze, ma per quanti tentativi feci, non riuscii a vedere
la sconosciuta ragazza. Ci rimasi male, mi aveva mentito, aveva detto
di essere venuta per la pigiatura e lì non c’era. Il giorno dopo,
stanchi da morire, restammo a letto oltre il solito e stranamente
nessuno venne a chiamarci come spesso accadeva. Finalmente, quando ci
alzammo e uscimmo sull’aia, gli uomini stavano smontando il grande tino
che era stato al centro dell’attenzione il giorno prima. Le donne,
stavano ripulendo tutta la corte, da ogni segno visibile di quanto era
successo. Tutto doveva ritornare alla normalità per riprendere la vita
di sempre. Fra non molto si ricominciava con le colture invernali, ma a
quel punto io non sarei stato presente.
Lorenzo Barbieri
Lorenzo Barbieri
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