(Simile nella foggia, ma non uguale al matitòn originale) |
È
triste e ansiogeno scorrere il Blog e vedere apparire in icona quel buco del “Non sono più tra noi”; anche perché
ultimamente mi pare compaia un po’ troppo spesso.
Il
pensiero, il ricordo ed un requiem va quindi sempre a quelle persone che ci hanno lasciato e che, in un modo
o nell’altro, più o meno approfonditamente, abbiamo conosciuto in un
periodo della nostra vita. Nel piccolo ambito paesano poi, di nessuno, neanche di chi ci è stato più lontano, ci lascia indifferenti l'estrema dipartita. Oggi, che
questa perfida rubrica viene a comunicarmi
la scomparsa della cara Maestra Casentini, tornano a galla vecchi ricordi ed emozioni dei miei anni più verdi.
La Giuliana Casentini non era la mia maestra, perché per tutte le elementari fu mia insegnate l'Annamaria Copelli in Dalla Fontana. Però insegnava nella classe accanto, nel medesimo stabile dò par la Capèla ora occupato da alcuni uffici comunali e mi aveva preso, a modo suo, a benvolere.
La Giuliana Casentini non era la mia maestra, perché per tutte le elementari fu mia insegnate l'Annamaria Copelli in Dalla Fontana. Però insegnava nella classe accanto, nel medesimo stabile dò par la Capèla ora occupato da alcuni uffici comunali e mi aveva preso, a modo suo, a benvolere.
A modo
suo significa che io non ero allora propriamente entusiasta di questa sua
benevolenza, dato che coinvolgeva il mio amor proprio e un oggetto mio, unico e originale: il matitòn.
Mio
padre, dalla Svizzera, era solito portarci dei regali che là erano cose comuni,
ma che nella Lacrimarum degli anni
sessanta non avevamo ancora mai visto. Nella fattispecie il matitòn era un astuccio da scuola di plastica, prodotto dalla Caran d'Ache a forma di matita
gigante. Era decorato con un motivo jacquard verde lucido e aveva il coperchio
tondo chiuso da una zip perimetrale dorata. Inoltre era dotato di un laccio
sommitale per appenderlo, a mo' di ciuffo. Quello strano oggetto catalizzò subito la curiosità dei miei compagni e fu immediatamente battezzato, peraltro senza eccessiva fantasia, appunto: el matitòn.
In
verità non era praticissimo, perché andava bene a contenere matite e pastelli, ma era meno adatto ad ospitare gomme e temperamatite, che finivano inesorabilmente
sul fondo e bisognava svuotarlo tutto per recuperarle. Indubbiamente però era originale, non ce l’aveva
nessuno e io ne andavo giustamente fierissimo.
Orgoglio
del quale s'era avveduta la Maestra Casentini, che non perdeva occasione
di nascondermelo, gettandomi ogni volta nella più amara disperazione. Lei si
divertiva alle mie preghiere e ai pianti per farmi restituire il matitòn e le protraeva all’inverosimile
rovinandomi la ricreazione e anche oltre. Io ero sempre troppo preso dal recupero del matitòn per rendermi conto della ricaduta che aveva questa messinscena sui miei compagni di classe, ma di certo non ci facevo un figurone.
Lo
sapevamo tutti che era una sceneggiata, dacché continuava a ripetersi con i medesimi
tempi e modalità; io però ci stavo sempre male e da pollastro qual’ero non seppi
mai realmente venirne emotivamente a capo.
Quando
poi finalmente mi restituiva il matitòn,
la Casentini si faceva ampiamente perdonare prendendomi in braccio e sbacciucchiandomi affettuosamente. Allora ero felice! Intuivo che in fondo mi voleva bene e forse era quello il suo modo di esprimere
un afflato materno, pur non parendomi lei tipo da tante smancerie. Fattostà
che io non vissi benissimo queste cose, anche perché cominciavo ad venire identificato dalle altre classi come “cuélo dal matitòn”.
Poi
emigrai in Svizzera e non ci rivedemmo più; salvo una volta quando avrò avuto quindici
anni, che la incontrai ai Checa mentre portava in passeggiata la classe e mi
disse d’avermi riconosciuto dagli occhi piccoli e penetranti. Mah! Non m'ero mai accorto d'avere questa caratteristica.
Passarono
gli anni e il fatidico matitòn, come
tutte le cose vintage di casa nostra, non venne buttato, ma rimase in quarantena perenne fra mille altre cianfrusaglie d’epoca. Peraltro esso aveva anche un vissuto del tutto particolare e se lo meritava.
Finché,
forse una dozzina d’anni fa, capitò che la Casentini mi mandasse a salutare
attraverso il nostro parroco, che precedentemente lo era stato di Velo e perciò si conoscevano bene. Mi venne
quindi l’ispirazione di andarla a
trovare e di portarle un regalo del tutto speciale.
Ruscai parecchio fra le cose della casa vecchia prima di recuperare il mio vecchio matitòn,
che nonostante il mezzo secolo era più pimpante che mai (eh, la qualità
svizzera…) e che con una bella pulitina ritornò come nuovo. Presi carta e penna
e vergai una dedica: “A Colei che mi ha fatto
versare lacrime di autentica disperazione, con affetto. Gianni”
La avvolsi a mo’ di pergamena, la fissai con un fiocchetto rosso e la infilai nel matitòn, confezionandolo in pacco regalo.
La avvolsi a mo’ di pergamena, la fissai con un fiocchetto rosso e la infilai nel matitòn, confezionandolo in pacco regalo.
Mi
ricevette con piacere nella sua casa di Arsiero e mi parve commuoversi per l’inaspettato
regalo. Conversammo un po’ rinverdendo quelle vecchie vicende scolastiche e m’invitò
a andare a far visita anche alla Maestra Dalla Fontana, che le avrebbe fatto certo
piacere.
Ogni
tanto chiedevo sue notizie al nostro parroco, che m’aggiornò delle sue più recenti
condizioni.
Ciao Maestra, va’ ora in
pace tra le braccia di Dio. Mi hai fatto penare, ma anche assaporare la
gioia delle tante affettuose riconciliazioni. Hai limato il mio nascente orgoglio, e questo non è stato poi male.
davanti alla sua mitica 850
con i compagni di merende ;-)
Annalisa Nicolussi e Stefano Dalla Fontana
Complimenti Gianni. Esperienze di vita che si raccontano con nostalgia e commozione, a volte anche con risvolti negativi.
RispondiEliminaSouvenirs, souvenirs...Bei ricordi dell'infanzia. Grazie Gianni.
RispondiEliminaNon ho mai ricevuto un MATITON, ma tutti i scolari conoscono la marca Caran d'Ache.
Questo nome viene da «karandash» che vuol dire matita in Russo, termine che deriva, a sua volta, dalla radice turca «Kara Tash» che significa pietra nera (grafite).
Questa non la sapevo, io allora la chiamavo Carandake, leggendo com'era scritta. ;-)
EliminaOdy, ma ti, a scola dai cugini transalpini, faxivitu le aste? Schincavitu i penìni? Spandivitu l'inciostro? portavitu la stèla?
EliminaTrenta anni fà, a Valpegara, avevamo un vecchio amico che diceva, quando parlava di gente balorda : « bisognaria tirarghe la mattità da la testa » Neologismo veneto interessante.
EliminaA scola, Sponcy, a gero « matita nella testa » pitosto che « mattità », come tante tosette de quela epoca.
Invese i tusiti ,come ti, penso chi ghese bio pi « mattità ».
Desso xe pi fifty fifty.
Grande el Koscri e el mitico Matiton...
RispondiEliminaBellissimo questo tuo racconto, Gianni!
RispondiEliminaEsilarante e commuovente al tempo stesso.
"La Casentini' è stata la mia maestra dalla seconda alla quinta elementare (la prima l'avevo frequentata a Monfalcone) ed era proprio come l'hai descritta: poco propensa alle smancerie ma con guizzi di vivacità e slanci di affetto che, proprio perchè non scontati, sorprendevano ogni volta anche me.
In ogni momento ci trasmetteva comunque il suo amore grazie all'impegno e allo sforzo di educarci, oltre che di istruirci.
Come un terzo genitore.
Ciao Gianni, mi sai dire se Annamaria Copelli è ancora viva? Se si, è possibile rintracciarlo?.Ciao nico
RispondiEliminaNon saprei Nico, non ho notizie in merito. mi pare fosse coetanea della Casentini.
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