lunedì 9 settembre 2019

Scanucia


Gianni Spagnolo © 190822
L’orizzonte di chi nasce in una valle è palesemente delimitato e rivolto al cielo. Come la leopardiana siepe, le montagne escludono lo sguardo da tanta parte dell’ultimo orizzonte. Sarà forse questo che spinse molti di noi della Lacrimarum ad annegar il pensier oltre quei limiti; ma questa è un’altra storia.
Il mio orizzonte di bambino era dunque compreso fra i contrafforti orientali dello Scalòn, i Soji, il poderoso anfiteatro del Crojere, i bastioni del Becco di Filadonna e del Cornetto, per finire in senso antiorario verso lo Spitz e i Siroccoli: erano questi i limiti e la corona del mio piccolo mondo d’allora. 
Mia nonna Gusta mi raccontava le storie tenendomi in gaja seduta accanto alla finestra che guardava a Nord-Ovest, su per la valle, oltre le Marogne, fin sulle creste del Cornetto e dell’imponente promontorio del Becco. Era quello il mio orizzonte più lontano, la mia personale siepe oltre la quale si schiudeva un mondo sconosciuto. Attraverso  quei vecchi vetri sottili e ballerini, percorsi da strane nervature,  giocavo a mettere a fuoco il mio cannocchiale fantastico. 
Delle montagne prossime al paese si sapeva tutto o quasi; ogni anfratto, ogni sorgente, ogni vanèda, ogni campìgolo aveva la sua storia. Pur stando in valle, la nostra anima in verità apparteneva alla montagna in un legame profondo, antico e misterioso. 
Cosa ci fosse oltre quel bastione roccioso e dirupato che chiudeva la valle, a volte imbronciato dal maltempo incombente, era invece sconosciuto e intrigante. 
Alle mie insistenti domande, la nonna mi raccontava grave che oltre quelle montagne c’era la Scanucia: un posto difficile, selvaggio, con boschi popolati da camosci e galli cedroni. In fondo, al centro di quel territorio, c’era un grande palazzo, con merli, bestiame e recinti, al quale appartenevano quelle terre da sempre.
Lei lo sapeva bene perché c’era stata con altri del paese che erano saliti lassù a fare i boscaioli. Mi elencava i loro nomi, che ora non ricordo e mi raccontava che lei cucinava per loro in ricoveri di fortuna. Ricordava il duro lavoro degli uomini in quell’ambiente aspro e in tempi tribolati da guerre e penuria d'ogni cosa. Questa era la Scanucia, dunque, che aveva tutti gl'ingredienti per diventare l’estrema Thule del mio mondo bambino; un posto fantastico, appeso appena sotto al cielo, al di là di quel termine di monti.
Sapevo che oltre la Scanucia c’erano altre terre: c’era Il Tirolo, la Svizzera, la Francia e il Belgio, per non parlare del grande oceano, al di là del quale c'era la Merica; luoghi familiari alla nostra gente errante che io faticavo solo a immaginare.  Pensavo che prima di tutto bisognasse però attraversare la Scanucia e già questo non doveva esser cosa da poco.
Passarono ancora parecchi anni prima che mio padre mi portasse finalmente su quei fantastici baluardi della nostra valle a scoprire di persona cosa si celasse dietro quegli estremi crinali. Identificai allora finalmente la Scanucia, il vallone glaciale che si stendeva lì ai miei piedi, contornato da mughi e rododendri in fiore. Era un posto relativamente piccolo, delimitato, appartato, niente a che vedere con gl’interminati spazi immaginati da bambino. Non c’erano neanche i sovrumani silenzi, dato che si affaccia  sulla  trafficata Val d’Adige, ma la profondissima quiete, sì, quella c’era.
Il toponimo proprio di quel luogo era Scanuppia e fu il feudo montano dei conti von Trapp di Beseno, signori dell'immenso omonimo castello in fondo alla Valle del Rosspach e per secoli insidiatori dei nostri confini, nonché giuspatroni delle chiese di Brancafora e Casotto. 
Questo lo sapevo perché d'un più moderno conte Trapp conservo un vago ricordo di un incontro agli Scalzeri con Mons. Antonio Toldo, nell'ambito delle ricerche storiche per il suo libro Valdastico ieri e oggi. Ero chierichetto e mi trovai ad accompagnarlo assieme al parroco all'appuntamento con quel distinto e canuto signore, la cui antica famiglia tanta parte ebbe nelle vicissitudini delle nostre montagne. 
La Scanuppia venne ceduta nel 1990 dai Trapp alla provincia Autonoma di Trento che ne ha fatto un’area protetta.  Ho scoperto di recente che il mio luogo fantastico è ora prevalentemente noto tra i ciclisti per avere la salita più ripida d’Italia, con punte del 45%. 
Io, che in montagna preferisco andarci a piedi, l’ho visitata solo dall'alto, dal basso non ci sono mai salito e forse mai lo farò. Preferisco lasciarla sospesa lassù, sotto all’orizzonte; quell’orizzonte che un tempo mi precludeva quegl’interminati spazi che da migrante ho avuto poi la ventura di percorrere.

2 commenti:

  1. Grazie per aiutarci a ricordare ,con nostalgia , i tempi andati.

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  2. Anche l'Ei, in un tempo imprecisato del secolo breve, albergò nello stalotto di malga Imprec.

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