[Gianni Spagnolo © 22H21]
Sarò forse stato uno dei pochi bambini a cui “Pinocchio”, la celebre fiaba di Collodi, non piaceva per niente; anzi, incuteva un certo timore. Avevo un bel librone rilegato, regalo della zia svizzera, in cui il racconto era riccamente illustrato con i vari personaggi; fra tutti spiccavano due giganteschi carabinieri con sciabola e pennacchio che trascinavano il povero burattino in schiavettoni, quasi sollevandolo di peso. La faccia costernata di Pinocchio e il severo cipiglio di quegli arcigni tutori dell’ordine li ho ancora ben impressi nella memoria, ben più della grottesca figura di Mangiafuoco o della Balena. Sarà forse per questo imprinting letterario, o per altre insondabili associazioni, che a me la Benemerita non andava proprio a genio.
Il paesello ospitava la stazione dei Carabinieri che presidiava l’intera alta valle dell’Astico e i militi giravano in coppia per il paese garantendo la sicurezza del territorio. La caserma era ospitata nella casa degli Scarpari, sul bivio delle Fontanelle, prima che fosse trasferita nell’attuale sede periferica al paese. Al piano terra c’erano anche le celle, finestrate verso la strada da robuste inferriate che non contribuivano a render simpatico il presidio. Probabilmente la Stazione fu istituita subito dopo l’Unità d’Italia, data la prossimità al confine e i traffici che sicuramente implicava un paese di frontiera. L’insieme costituiva comunque una cosa foresta, staccata, aliena alle faccende paesane, espressione di uno stato assente, supplito dalle più accoglienti braccia di Francia, Belgio e Svizzera. Almeno loro ci davano di che vivere.
Chissà dunque perché mi trovai coinvolto in una vicenda che faceva di me quello sbregamandati che in realtà non ero. Ma veniamo ai fatti! Si andava verso il crepuscolo degli anni Sessanta, quando il baldo Janìti risaliva Via Regina Margherita, incrociando di striscio la coppia di carabinieri che la discendevano appaiati a piedi. Caso volle, che il predetto fanciullo si rivolgesse ai militi producendosi in una vigorosa slenguassàda, per poi dileguarsi lesto verso la piazza. L’indomani stavo (el Janìti de prima) facendo colazione quando qualcuno bussò decisamente alla porta e costrinse mia madre a lasciare inpiantà i mestjri per andare ad aprire. Fu lì che i due militi del giorno avanti, dopo aver accertato il domicilio del criminale, notificarono a mia madre l’atto inconsulto e proditorio del figlio. Quello che ne seguì l’ho rimosso per carità di patria, ma non fu propriamente un momento felice.
Vabbè, … slenguassare le Forze dell'Ordine era certo un comportamento disdicevole, d’accordo, ma avevo anche sette anni, granfati! Sarà che i Benemeriti non avessero un gran daffare, se si presero la briga di recarsi in pompa magna da una famiglia con padre emigrato a stigmatizzare la cretinata d’un ragazzino. Da noi i carbinjri in casa arrivavano ad annunciare famigliari morti in guerra o all’estero in miniera.
Al tempo di naja, i coscritti scalpitavano per entrare come ausiliari nell’Arma, idea che invece a me non passava neanche per l’anticamera del cervello; preferivo la penna ai pennacchi, e così fu! Fu quando presi i gradi, che quella dimenticata vicenda riemerse dai polverosi, ma inesorabili archivi delle Forze dell’Ordine. Era prassi delle FF.AA., infatti, informarsi presso la stazione dei CC di competenza della buona condotta del giovane, che nel mio caso, riportò quell’incancellabile onta. Mi feci quattro risate con l’amico furiere alla vista del telegramma. Si vede che i solerti C.C. ritennero di verbalizzare sia l'orrendo misfatto che la missione di notifica, consegnando una bambinata all’imperitura memoria della burocrazia. Tutta colpa di Pinocchio!
Vutu védare invesse che forse c’era in ballo anche qualche rametto di DNA, dato che anche mio nonno fu oggetto dell’inesorabile attenzione dei militi dalla fiammeggiante granata. Per questa vicenda dobbiamo però retrocedere di circa mezzo secolo, al tempo in cui il paese era in ricostruzione e serpeggiava quel po’ di turbolenza foriera dell'imminente dittatura.
In Capovilla c’era l’osteria dei Gànbari, che allora comprendeva anche il pòrtego che dà sull’Ara, che talvolta era adibito a balera animata da qualche musico della banda paesana. Avvenne che il maresciallo dei locali RR.CC. proibisse per ben due volte il ballo ai giovanotti del paese, facendoli sfollare d’imperio. Fu quella seconda volta che il sottufficiale impose la cessazione del ballo, che agli astanti salì il fumo agli occhi. Va considerato che quegli uomini non erano più i ragazzotti timorosi e timorati di prima della guerra; c’erano reduci dall’Ortigara, dal Grappa e dal Pasubio; ne avevano viste e vissute di cotte e di crude e certo non erano più disposti a tollerare che gli venissero conculcati i legittimi svaghi, foss’anche animati da qualche goto de massa.
Il maresciallo fece chiuder l’esercizio e disperdere quegli uomini, dirigendosi poi verso la piazza, inseguito da alcuni di questi che ne contestavano la reiterata ingerenza nelle loro faccende. Non potendo bere in servizio, si diresse verso la fontana pubblica per dissetarsi e forse rinfrescarsi dai postumi di quell’azione, che qualche bel patema deve averglielo creato.
Fu allora che qualcuno prese il comandante e gli ficcò la testa nella vasca, trattenendolo e facendolo dimenare per l’asfissia. Quando Toni lasciò la presa e scappò via, assieme agli altri, il maresciallo, ergendosi tuto mojo e pantedando, scorse nei pressi solo il malcapitato Rocco, al quale addebitò d’ufficio l’oltraggio. Cotanta protervia nei confronti della Forza Pubblica non poteva restare impunita e fu così che Rocco Gianesini finì al fresco della cella degli Scarpari. Le indagini subito avviate sembravano indicare in Toni Pituco l’autore del misfatto e quindi scattò in paese la caccia all’uomo. Forse i paesani indicarono il soprannome di Toni e non il cognome per guadagnare un po’ di tempo. Lui era un Lucca Toldòn, Pituca era il soprannome della madre dal Sojo, che allora era uso acquisire per differenziarsi. La dinamica del grave oltraggio all’Arma non era però del tutto chiara e la pora Sunta, morosa e poi moglie di Rocco, ebbe il suo bel daffare a convincere i RR.CC. dell’estraneità del recluso.
Di Toni non si trovò traccia; s’era ben nascoso in casa di Menegosto, compagno d’armi e sodale, che, fatalità, aveva l’abitazione sospesa sulla Val del Chéstele. Posto ideale per scappare velocemente verso le Jare e i Mori in caso di visite sgradite. Su di là i RR.CC. non avevano mai messo piede e non ci sarebbe stata partita. Majnàrse! Passati i tre giorni di contumacia, la caccia venne sospesa e il povero Rocco finalmente liberato. Il maresciallo si rese probabilmente conto che i paesani non tifavano certo per lui e se ne fece una ragione. Valse forse la considerazione che Toni e qualche altro della combriccola erano in cima all’Ortigara, quel tragico giugno di qualche anno prima. Infine Toni emigrò in Francia e basta là.
Che il nonno fosse un po’ fumantino lo testimonia un altro episodio, più antico e perciò dai contorni sfumati, accaduto sulla vecchia frontiera prima che sparisse. Le memorie familiari narrano che quella volta fu un doganiere austriaco che finì dritto nel socàle, probabilmente in occasione di un diverbio per qualche foglia de tabaco da trodi.
Tutta colpa di Pinocchio! Chissà se l’aveva letto anche mio nonno e ne uscì pure lui turbato. Può darsi, visto che venne pubblicato nel 1883.
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