[Gianni Spagnolo © 22C4]
Le aste, quello strano e incomprensibile modo di iniziarci alla scrittura prendendo confidenza con lo spazio bianco del quaderno. Righine verticali vergate una accanto all’altra con circospezione e la linguetta di fuori, segno dell’ansia di fare le cose per benino, come insegnavano i maestri quando tracciavano le prime sull’angolino in alto a sinistra. Astine tracciate con il pennino laccato inastato sullo stilo a forma di pera allungatissima, intinto nel calamaio incassato sul margine del banco. Strumento già arcaico allora, che permetteva di dosare la pressione e realizzare quelle belle differenze di tratto ed i sottili svolazzi che caratterizzavano la “bella scrittura” delle precedenti generazioni. Mezzo che però sgrinsàva e schincàva spesso, specie in mani inesperte.
Segni da ripetere sul quaderno per pagine intere, perché considerati utili ad addestrare la nostra acerba mano alla precisione del segno, prima di affrontare la scrittura, quella vera. Corti tratti che dovevano contenersi rigorosamente entro i margini dei quadretti del quaderno, mantenendone costante la spaziatura e la perpendicolarità. Alcuni quaderni avevano le guide prestampate da ricalcare, sugli altri si andava un po' a usma.
C’erano già le prime biro, a quel tempo; quelle che sbavedavano tutte, ma costituivano un oggetto ambito e una sorta di promozione culturale l’entrarne in possesso, quando si passava di classe. In prima erano inarrivabili, specie quelle gialle dal tratto sottile, che costavano un’eresia pur nel loro piccolo. Furono esse a permettere una scrittura più veloce e istintiva e così a perdere la cura del proprio stile. In quei primi anni Sessanta era stato soppresso l’insegnamento scolastico della “bella scrittura”, ridotto alla sola prima elementare. Allora la maestra scriveva sul quaderno una prima riga di lettere e poi noi, pori cochi, dovevamo ripeterle molte volte cercando di copiarle dignitosamente Dalle nostre bande non s’erano ancora attenuate le punizioni di scrivere almeno 50 volte la medesima parola sui quaderni a righe, per chi non riusciva a dominare convenientemente lo spazio bianco.
Ai giorni nostri, con l’imperare dei mezzi informatici, abbiamo disimparato a scrivere a mano. Scrivere in modo leggibile è sempre più una rarità, e non solo per i medici. Avere una scrittura codificata e leggibile a tutti era una necessità, non un vezzo. Tutti dovevano comprendere la scrittura manuale degli altri nel loro quotidiano e perciò doveva esserci una sorta di standard con cui misurarsi. La cosa è evidente leggendo le lettere dei nostri genitori, che presentano una scrittura piuttosto standardizzata, sia nei grafemi che nell’utilizzo dello spazio della pagina, dove lo stile personale, pur presente, non altera granché la comprensione del testo.
Pare che oggi ben un quinto degli studenti, soffra non solo di disortografia, ma anche di disgrafia (spesso legata alla dislessia) che è la difficoltà di realizzare i grafemi manualmente e in modo automatico, leggibile e fluente. Chissà se c’erano dislessici anche stiàni; probabilmente si, ma non lo sapevano e venivano semplicemente qualificati come sùchi. La scrittura è talvolta indecifrabile anche per chi scrive, non solo per chi legge. La pressione è debole o eccessiva con micrografia o macrografia e non c’è continuità nel gesto, ovvero ci sono interruzioni con eccessiva o ridotta distanza tra le parole, non esatta legatura tra i segni e orientamento improprio del tracciato sul foglio, segni nervosi o svogliati, in poche parole una scrittura a “zampa di gallina” come si diceva una volta. “Chi non sa leggere la sua scrittura è un asino di natura” Così si diceva. Eco che allora si adotta lo stampatello anche per gli appunti dell’università, con lettere staccate e conformi al modello tipografico dei computer. Non sarà un caso la “bella calligrafia” stia tornando di moda come segno di originalità e stile, con corsi appositi per apprenderla e praticarla.
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