Come altri della mia generazione, non sono di madrelingua italiana; l’italiano
l’ho imparato a scuola. L’ho poi praticato prevalentemente a fini
culturali, informativi e per necessità di relazioni. Con questa lingua ho
quindi una consuetudine piuttosto formale.
Va da sé che quando la parlo si capisca facilmente da dove vengo, ma
la cosa non mi dispiace per niente; il mio imprinting è comunque parte di me
stesso. Quando la uso cerco tuttavia di applicarne le regole, come mi hanno insegnato, non di inventarne di mie. Essendo strumento di comunicazione per eccellenza, una lingua serve appunto a comunicare ed è essenziale che ciascun interlocutore riesca a coglierne appieno il significato.
Forse è per questo che m’infastidisce la sciatteria con cui la lingua italiana, pur ancor giovane e in fase di sviluppo, è quotidianamente trattata anche dalle istituzioni che dovrebbero promuoverla e coltivarla. In un’epoca di letture
a dosi omeopatiche, di frasi sincopate, di neologismi effimeri, di banalizzazione e decongiuntivazione imperante, ci vorrebbe almeno un po’ d’attenzione da parte di chi: informazione,
scuola e giustizia in primis, ne fa un uso istituzionale.
Ne è emblematica la rappresentazione che ci offre Claudio Giunta nell’articolo che trascrivo di seguito, in cui commenta la famosa sentenza della Corte di Cassazione in merito
alla concessione degli arresti domiciliari a Totò Riina per ragioni di salute.
L’articolo è lunghetto e a tratti astruso, ma merita di essere letto per
capire quanto le nostre Massime Istituzioni tengano in considerazione la
chiarezza espositiva e la conseguente comprensione da parte del comune
cittadino di atti ufficiali che lo riguardano, facendo della lingua nazionale un
privilegio di casta e, soprattutto, scempio.
Gianni Spagnolo
Provate a leggere ordinanze e sentenze dei tribunali: quello del diritto è
un linguaggio a sé, lontano dall’italiano standard e incomprensibile al LETTORE NON GIURISTA
Un’indagine di Claudio Giunta
2 Settembre 2017 “Il Foglio”
2 Settembre 2017 “Il Foglio”
Premessa
molto personale. Devoto lettore di Kafka, io ho una paura innata di tutto ciò
che riguarda la sfera dell’amministrazione, del controllo e della giustizia.
Apro con ansia gli estratti conto della banca, le bollette, e in generale ogni
busta che abbia stampato il logo di un ufficio pubblico nello spazio del
mittente. Diffido degli esseri umani presi da soli; ma gli esseri umani organizzati in ufficio agenzia ministero mi terrorizzano.
Una volta Equitalia mi ha contestato una cartella esattoriale e io ho pagato la
multa senza neppure verificare se avevano ragione, tanto mi stomacava l’ipotesi
di dover ricevere, e dover rispondere a, ‘comunicazioni ufficiali’. Non ho mai
avuto guai giudiziari e spero di non averne mai, ma se ne avessi è probabile
che – condannato innocente in primo grado – non farei appello per evitarmi la
pena delle scartoffie, delle marche da bollo.
Ciò
detto, e scontate le paturnie individuali, mi sembra abbastanza allarmante il
fatto che un cittadino italiano più colto della media (sì: moi) abbia serie difficoltà a capire, tra l’altro, il testo
delle leggi del suo paese e le circolari ministeriali che governano
l’università in cui lavora. Ci sono certamente casi in cui le leggi e le
circolari devono essere un po’ complicate, perché complicata è la materia che
intendono normare; ma nella generalità dei casi il cittadino, specie il
cittadino colto, dovrebbe poter capire senza difficoltà. E che dire delle
sentenze, gli atti che decidono del destino di un essere umano? Dovrebbero
essere cristalline, e argomentate in maniera quasi geometrica. E invece.
Nella primavera del 2017 ha fatto molto discutere un’ordinanza
del Tribunale di sorveglianza di Bologna che negava al boss mafioso Totò Riina,
condannato a vari ergastoli, la possibilità di uscire dal carcere per ragioni
di salute (Riina sembrava essere in fin di vita). L’ordinanza risale in realtà
al 2016, ma ci sono voluti alcuni mesi prima che la Corte di cassazione si
pronunciasse sul ricorso che contro quell’ordinanza avevano presentato i legali
di Riina. Con la sentenza del 22 marzo 2017 la Corte ha deciso di annullare
l’ordinanza del tribunale bolognese e di rinviare l’incartamento allo stesso
tribunale “per un nuovo esame”. Di qui la polemica. Si vuole davvero – hanno
scritto i giornali, si è letto nei social network – scarcerare un pluriomicida?
Merita davvero, Totò Riina, la morte dignitosa che lui ha negato a tante decine
di persone innocenti? Qui non importa naturalmente entrare nel merito della
questione. Importa invece leggere qualche passo della sentenza della
Cassazione, per avere un assaggio del più temibile (ma anche del più
importante, in una nazione che si voglia dire civile) tra i “linguaggi
tecnici”, il linguaggio del diritto.
Aggiungo che l’esempio è preso davvero a caso. Di
sentenze simili ne verranno scritte decine e decine ogni giorno. E, mi dicono
amici giuristi, questa – forse anche perché proviene dal più alto dei nostri
organi giudiziari – è scritta anche meglio di moltissime altre. Tra l’altro, io
l’ho cercata e l’ho letta spinto da un sentimento di ammirazione e gratitudine,
perché da quello che avevo letto sui giornali mi era parso che la Corte di
cassazione, annullando l’ordinanza del Tribunale di Bologna, avesse dato prova
di equilibrio e saggezza. E non ho cambiato idea dopo aver letto la sentenza, a
mio parere ineccepibile (e ben ragionata) sul piano del contenuto. Sul piano
della forma mi pare invece che ci sia da trasecolare.
La Corte di cassazione comincia, com’è consuetudine,
riassumendo l’ordinanza sulla cui legittimità è chiamata a decidere.
“L’ordinanza escludeva…”: così iniziano ad argomentare i giudici, e il Lettore
Non Giurista (d’ora in poi LNG) trova già strano che per il riassunto venga
scelto un tempo verbale di gestione abbastanza difficile come l’imperfetto
indicativo, quando sarebbe tanto più comodo usare il presente o il passato
prossimo (“L’ordinanza esclude”, “L’ordinanza ha escluso”). Il LNG immagina che
questa sia la prassi, che a usare l’imperfetto si insegni nelle facoltà di
Giurisprudenza, e che alla domanda “E perché?” di uno studente sfacciato il
docente risponda serafico “Perché è prassi”. Accettiamo dunque anche noi che
sia prassi, non fermiamoci su queste minuzie.
L’ordinanza escludeva, inoltre, il superamento, nel
caso in esame, dei limiti inerenti il rispetto del senso d’umanità di cui deve
essere connotata la pena e del diritto alla salute e, in relazione al
particolare aspetto del rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari
infausti, affermava che, proprio in considerazione della idoneità della
struttura penitenziaria ad apprestare interventi urgenti, lo stato di
detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, essendo il rischio
dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di
libertà.
Come
insegnano le grammatiche, le doppie negazioni sarebbe meglio evitarle, quando
si può, perché possono generare confusione. Invece di dire “nego di non averti
visto” diciamo “sostengo di averti visto”, e tutti ci saranno grati. E’ vero
che a volte la doppia negazione ha una sfumatura di senso diversa dalla frase
affermativa, una sfumatura che è ben legittimo voler esprimere. Se dico “non
sono sfavorevole” non sto dicendo esattamente che “sono favorevole”, sto
dicendo qualcosa come “non mi oppongo”. Ma nel passo della sentenza che abbiamo
appena citato la prima frase di questo periodo lunghissimo ci lascia per un
attimo (o anche per più di un attimo) nel dubbio. Il LNG ci mette un po’,
infatti, a capire che escludere il superamento dei
limiti inerenti il rispetto del senso di umanità significa “affermare
che i limiti del rispetto del senso di umanità non sono stati superati”, ovvero
che “nel caso in esame il senso di umanità è stato rispettato”. Come si vede,
la parafrasi è ardua un po’ per gli incisi che s’intromettono in un periodo già
in sé difficile da capire (inoltre, nel caso in esame) e un po’ perché le parole non sono ben
scelte: “limiti inerenti il rispetto del senso di umanità”, per quanto il LNG
se lo giri nella testa, e tralasciando il fatto che si dice inerente al non inerente il, non ha
proprio senso in italiano. Né le cose migliorano andando avanti. Abbiamo –
ricostruendo la sintassi tutta spezzata della sentenza – una pena che
dev’essere “connotata del senso di umanità” (forse si voleva dire temperata, caratterizzata dal?),
degli “eventi cardiovascolari infausti” che saranno forse un infarto, e poi… E
poi, soprattutto, parole che sembrano stare lì come riempitivo, e che oscurano
il significato anziché chiarirlo (“in relazione al particolare aspetto del
rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari infausti”: non sarebbe meglio
così?), e parole che si combinano male, che non dicono veramente ciò che gli scriventi
sembrano voler dire. In “nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia”
sembra che a soffrire sia la patologia; e in
“essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni
cittadino” si capisce che i giudici intendono dire che Riina ha tante
possibilità di morire d’infarto (“esito infausto”) quante (“pari e comune”) ne
hanno i suoi connazionali, solo che la frase non è scritta in italiano.
Procediamo.
"Lo stato di decozione" è, per il Lettore
Non Giurista, un ostacolo insormontabile che neanche la Treccani aiuta a
sormontare
In
particolare il Tribunale evidenziava l’altissimo tasso di pericolosità del
detenuto […: il che rendeva] impossibile effettuare una prognosi di assenza di
pericolo di recidiva del predetto, nonostante l’attuale stato di salute, non
essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza
fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di
mandante.
Il
senso è: Riina è ancora pericolosissimo, benché malato, perché dal momento che
è il capo di Cosa Nostra non ha bisogno di commettere in prima persona dei
delitti, può semplicemente affidarne l’esecuzione ad altri. Il senso – fate la
prova – è davvero questo, e soltanto questo. Ma per esprimerlo i
giudici adoperano delle perifrasi che più che lette vanno decrittate, tanto
sono cervellotiche e involute: “ruolo apicale rivestito dal detenuto”, per dire
che è il capo della mafia; “effettuare una prognosi di assenza di pericolo di
recidiva del predetto” (quattro complementi di
specificazione di fila, quando bastava scrivere “è impossibile escludere che
Riina sia ancora pericoloso e commetta altri reati”); “non essendo necessaria …
una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti”, per
dire che i mandanti non devono per forza di cose scoppiare di salute per
perpetrare i propri crimini (qui tra l’altro, e non sarà l’unico caso, la
ricerca di una parola astratta per dire “stare bene in salute” fa inciampare
gli estensori del documento nel termine prestanza: che in
italiano non significa “buona salute” ma “forza e bellezza”, ed è insomma del
tutto fuori luogo dato che si sta parlando di un moribondo).
Lo stile non cambia andando avanti. I periodi non si
accorciano, il concreto non prende il posto dell’astratto, gli incisi
continuano a frammentare l’argomentazione:
Il
ricorrente, nello specifico, si duole che nella valutazione dei presupposti per
l’applicazione degli istituti di cui all’art.147 cod. proc. pen. e 47 ter comma
1 ter, legge n. 354 del 1975 (nessun ulteriore cenno risulta invece,
nel corpo del ricorso, all’art.146 cod. pen.), il provvedimento impugnato
adotta una motivazione apodittica, illogica e contraddittoria, laddove alle
premesse sul grave stato di infermità fisica del detenuto istante trae comunque
le conclusioni per escludere la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione
degli istituti suddetti.
In
più si aggiunge qualche piccolo errore di sintassi: il verbo all’indicativo
anziché al condizionale (“si duole … che il provvedimento adotta”), il cattivo uso delle preposizioni (“alle premesse
… trae» anziché “dalle premesse … trae”); e si toccano vertici di
autentico virtuosismo nella smaterializzazione del lessico: la frase “le
conclusioni per escludere la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione
degli istituti suddetti” contiene cinque sostantivi, tutti astratti, tutti
inidonei a suggerire immagini mentali che possano aiutare il LNG a capire
davvero di che cosa si sta parlando.
Prendo ad esempio la Cassazione su Riina, ineccepibile
nel contenuto. Sul piano della forma c'è da trasecolare
Si
potrebbe continuare a lungo, arricchire il repertorio. Doppie negazioni che
costringono a leggere e rileggere una frase banalissima: “Il provvedimento in
esame sostiene l’assenza di un’incompatibilità dell’infermità fisica del
ricorrente con la detenzione in carcere” (= “Il provvedimento in esame sostiene
che l’infermità fisica del ricorrente è compatibile con la detenzione in
carcere”); sostantivi astratti al posto dei verbi corrispondenti, o verbi di
modo indefinito al posto dei verbi di modo finito (“tale segnalazione […]
rappresenta la negazione del presupposto affermato dall’ ordinanza medesima” =
“tale segnalazione nega il presupposto di cui si parla nell’ordinanza”); parole
“scelte” anche quando quelle ordinarie andrebbero benissimo (“un soggetto non
più in grado di deambulare” = “un soggetto che non può più camminare”); e poi
perifrasi infinite quando basterebbe usare una o due parole chiare, e incisi
lunghi due righe al termine dei quali non ci si ricorda più come cominciava la
frase, e punteggiatura messa a casaccio (“[un diritto] in relazione al quale,
il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della
detenzione domiciliare, deve espressamente motivare”), e, insieme a quelli già
notati, altri errori d’italiano, errori da scuola media (“il Collegio ritiene
di dover dissentire con l’ordinanza impugnata”: ma si dissente da qualcosa, non con qualcosa).
Ma concludiamo. La sentenza della Corte si chiude
così:
Ritiene
in merito il Collegio che le eccezionali condizioni di pericolosità debbano
essere basate su precisi argomenti di fatto, rapportati all’attuale capacità
del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni
idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza.
Andando avanti i periodi non si accorciano, il
concreto non prende il posto dell'astratto, gli incisi continuano a frammentare
Certo,
che “le eccezionali condizioni di pericolosità debbano essere basate su precisi
argomenti di fatto” è mal detto, perché ad essere basato su precisi argomenti
dev’essere il giudizio circa la pericolosità, non le condizioni di pericolosità; ma il senso si capisce lo
stesso. E certo, “integrare il pericolo di recidivanza” non è bello; ma è uno
di quei modismi che si trovano in ogni linguaggio tecnico, e il LNG non
contesta affatto la legittimità dei linguaggi tecnici: si domanda soltanto se
non potrebbero essere usati meglio, ancorché tecnicamente. Ma “lo stato di
decozione” è, per il LNG, un ostacolo insormontabile, e che neanche la
Treccani, neanche l’Accademia della Crusca aiutano a sormontare. Perché
l’antica parola decozione, secondo l’uno e l’altro
vocabolario, vuol dire “operazione di bollitura per preparare un decotto”
(esempio: “La decozione del fiorrancio provoca i mestrui”), oppure vuol dire –
o meglio voleva dire, nel gergo giuridico ottocentesco – “stato di insolvenza
di un debitore, fallimento”. Niente che veramente si attagli alla condizione di
Totò Riina, semicosciente in un letto, a meno che l’estensore della sentenza,
sempre a caccia di sostantivi astratti in -anza e in -zione, non abbia ricavato decozione dall’aggettivo decotto, che ogni tanto si usa, famigliarmente, per
definire un tizio un po’ rimbambito. Sarebbe un bel caso: la risemantizzazione
arbitraria di un antico latinismo per influenza di un’altra parola di registro
linguistico molto più basso, quasi triviale. Totò Riina è decotto.
Restiamo pure nel dubbio, ma intanto traduciamo in italiano corrente il
(giusto) parere della Corte:
Il
Collegio ritiene che, se si giudica un condannato estremamente pericoloso,
occorre che questo giudizio sia fondato su argomenti solidi, e che il
condannato sia davvero in grado di compiere dei crimini nonostante il suo
gravissimo stato di salute.
Perché non scrivere così, anziché “azioni idonee in
concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”, e tutto il resto? Immagino
si possano dare due risposte. La prima l’abbiamo già ascoltata: «È prassi, è il
linguaggio che si insegna nelle facoltà di Giurisprudenza, che si assorbe nelle
scuole di specializzazione, nei tirocini». Sia pure: ma ci si domanda se non
sarebbe ormai il caso di contestare la razionalità di questa prassi, se il
risultato è la lingua goffa, opaca e non di rado scorretta di cui abbiamo
analizzato qualche campione. La seconda risposta è che ogni disciplina che
abbia – come il diritto ovviamente ha – un’ampia articolazione concettuale
possiede un suo gergo, un suo linguaggio tecnico che sveltisce e precisa la
comunicazione tra gli esperti. Anche questo è gergo:
Ciò che
caratterizza l’essere-per-la-morte autenticamente progettato sul piano
esistenziale può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’Esserci la
dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura
avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una
libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se
stessa e piena di angoscia.
E’ vero. Ma a parte il fatto che, come abbiamo visto,
il problema della sentenza che abbiamo letto non sta tanto nell’abuso del gergo
tecnico (quello che affiora appunto in idiotismi come “integrare il pericolo di
recidivanza”) quanto nel cattivo uso dell’italiano, un conto è parlare
fumosamente da filosofi e un tutt’altro conto è parlare fumosamente da giudici.
Dato che i magistrati della Corte di cassazione non devono occuparsi di cose
remote come il destino dell’Occidente ma della vita di individui in carne ed
ossa, e dato che non sentenziano in nome dell’Essere ma in nome del popolo
italiano, una maggiore aderenza alla lingua standard di questo popolo non
sarebbe raccomandabile?
Ah, l'imperfetto del prefetto perfetto !
RispondiEliminaGiusto! Bisogna scrivere in modo semplice e che tutti possano capire.
RispondiEliminaEcco chiarito il motivo che tanti studenti universitari preferiscono studiare sui libri di testo scritti dagli anglosassoni: sono sintetici, chiari, lineari, comprensibili e ricchi di contenuti.
RispondiEliminaSebbene anche gli autori francesi amino complicare i più semplici concetti, quegli italiani rimangono insuperabili nella loro capacità di azzeccagarbugli.
Ecco, Cariolante. Io direi "quelli" non quegli.
EliminaConcordi?
Sì, perché in questo caso “quegli” è pronome (riferendosi agli autori). Sarebbe stato corretto se “italiani” fosse stato aggettivo.
EliminaHai ragione, però rimane sempre un’avventura perigliosa addentrarmi nelle regole di grammatica studiate con poco interesse molti anni orsono. In caso di dubbio sulla regola da applicare, si potrebbe porre quesito all’Accademia della Crusca, che è sempre disponibile ad offrire i necessari chiarimenti.
I giornalisti della RAI e delle televisioni hanno reso l'italiano volgare. Rileggetevi (ah, non lo conoscete ancora?) Torquato Tasso!
RispondiElimina