mercoledì 6 aprile 2016

Co nàvimu a géme



I tempi della nostra fanciullezza erano scanditi dai ritmi della natura e dalle incombenze che comportava  l'alternarsi delle stagioni. 
C'era d'andar a raccogliere le gemme, le primule, le viole, i nontiscordardime, i ciclamini, i mughetti, il muschio, i bucaneve, ecc. Ogni sbocciar di vita accanto a noi segnava puntuale una piccola e veloce tappa del nostro stesso sbocciare alla vita.

Ricordo con struggimento l'attesa fine dell'inverno preannunciata dall'immancabile schiudersi delle gemme del salicone (salix caprea o salice di montagna). Quegli soffici piumini che ornavano i rami diritti e flessibili dei cespugli di salice selvatico che crescevano in fondo ai Giarùni, dove la Val dei Chéstele incontrava i prati e l'ambiente umido favoriva la copiosa crescita di questi arbusti. 

I Giarùni era allora un posto tenebroso e infido, usato come discarica delle poche cose che a quel tempo si buttavano via. Mamme e Nonne lo temevano perciò come l'inferno; ci si andava di nascosto e guai a farlo sapere.  Ma gemme grosse come ai Giarùni non si trovavano in nessun altro posto. 

Era un ambito onore annunciare per primi a tutta la tépa che "do ai Giarùni gera drìo a trar le géme".

Quei bei germogli soffici, gonfi e pelosini, esercitavano sui di noi bambini una magica e ancora infantile attrazione: era la Natura che ci chiamava, come anche le api con i fiori, per annunciarci per primi ogni anno il suo rinnovato patto con l'uomo. 

Mazzi di quei rami, selezionati con cura fra i più grossi e gemmati, venivano orgogliosamente portati a casa e messi in un vaso a troneggiare sul tavolo grande. Mamme e Nonne acconsentivano volentieri a questo rito; in fondo tornavano un po' bambine anche loro.
Finché non spanavano tingendosi di giallo; ma allora noi eravamo già impegnati in altre imprescindibili occupazioni del nostro calendario stagionale.
Gianni Spagnolo
II-IV-MMXVI

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