venerdì 7 giugno 2019

Schèi boni e schéi mati


Gianni Spagnolo © 190602
“Tarè che da mi no te bèchi gnanca on fènico!”
Era questa la risposta categorica e prevedibile di mia madre quando le chiedevo qualche palanca per andarmi a comprare dalle Polàche le capéte per la pistola. I miei avevano una idiosincrasia per le armi di ogni tipo, specialmente mio padre, che un annetto di guerra ha fatto in tempo a farselo e non gli aveva lasciato un buon ricordo. Io invece allora ne ero affascinato. 
Ero dunque costretto ad arrabattarmi per procurarmi l’artiglieria attraverso oculati baratti con gli amici e finanziamenti occulti dalla nonna per le munizioni. Ovviamente non avrei beccato un fènico neanche da mia nonna se solo avesse saputo della reale destinazione dell’obolo.
Fènico poi era una parola risolutiva, che incuteva un certo rispetto. Infatti era un modo di dire usato soltanto al negativo: Nol ga on fènico; Nol ghe ga lassà on fènico! (detto di eredità dilapidate). Declinata al positivo non l'avevo mai sentita; tipo: Némo chìve, valà, ca te dào on fénico. Mai!
Se chiedevi schèi e ti rispondevano di non darti un fènico, s'intuiva che anche sto fènico fosse, a suo modo, un schèo. Non era per niente chiaro invece quanto valesse, ma così a naso doveva essere proprio na monàda, anche se nessuno di noi l’aveva mai visto in circolazione. Andava ad aggiungersi alle varie denominazioni valutarie nostrane: schei, franco, palanca, monéda, quajòti, pelegrini, bessi, ecc. In realtà in Italia girava ufficialmente la Lira da oltre un secolo, ma dalle parti nostre si vede  che non era stata recepita; per il momento la nostra valuta ufficiale era ancora il Franco.
Non mi pareva poi tanto strano, dato che allora l’economia della Lacrimarum era sostenuta più dai franchi (francesi e belgi) che non dall’italica liretta. L’emigrazione endemica aveva reso i paesani più avvezzi alle valute straniere che alla propria. Fènico infatti era la corruzione del tedesco Pfennig o del polacco Fenig, nomi dei centesimi del Reichsmark che giravano nelle miniere della Westfalia o della Slesia, dove i nostri minatori lavorarono a frotte prima della Grande Guerra. Da quei territori furono poi richiamati per combattere contro quelli  che fin ad allora gli avevano dato lavoro. Sì, perché il Re d’Italia aveva bisogno del loro sangue, ma delle loro bocche e delle loro braccia non s’era mai curato; ma questa è un’altra storia.
Anche la parola schèi deriva dagli spiccioli in circolazione nel Regno Lombardo-Veneto (1815-66), dove era impressa la scritta tedesca Scheide-Münze (moneta divisionale, centesimi), che i veneti lessero a loro modo, accorciandola in Schèi. A voler essere precisi, la venetizzazione completa della moneta della foto sarebbe stata: "Sincue Schei de Mona", modo di dire poi diventato popolare col detto allegorico: Sincue schei de mona fa ben a tuti!
Le svanziche (la lira del Vicereame; da Zwanzig Kreuzer, ovvero venti centesimi di fiorino) non ebbero invece da noi altrettanta fortuna: se vede che jera massa schèi!
Pure il Franco pare avere analoga origine. Non deriverebbe infatti dalle monete francesi del periodo napoleonico, come si sarebbe portati a pensare, bensì da quelle dell'epoca asburgica, cioè dalla lettura del nome contratto dell'imperatore regnante: Franc. (Franciscus) Ios. (Iosef) I D.G. (Dei Gratia) Austriae Imperator coniato sui fiorini, come illustra l'immagine d'apertura (Francesco Giuseppe I° per grazia di Dio imperatore d'Austria). 
L'Euro invece ci abbiamo messo poco a metabolizzarlo: solo una decina d'anni. Niente al confronto del secolo e mezzo che non è bastato a farlo con la Lira. Che strano che è il nostro dialetto: ci ha fatto passare direttamente dal Franco all'Euro. Peccato non aver pensato di denominare il nostro debito pubblico col fènico, che sarebbe stato forse meglio. Mi sorge però il dubbio, con l'aria che tira, che qualcuno un pensierino in merito lo stia facendo adesso.













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