La catastrofe nucleare ha messo a repentaglio solo la specie umana: attorno alla centrale esplosa nel 1986 oggi c’è un’oasi eccezionale di biodiversità
Un bisonte immortalato da una delle trap cam del Chernobyl Centre
Nella quarta puntata di «Chernobyl»
(un piccolo capolavoro sulla stupidità criminale della burocrazia
totalitaria, in onda da questa settimana su Sky Atlantic) c’è una
lunga sequenza dedicata ad una squadra di decontaminazione cui è stato
assegnato un compito spaventoso: uccidere e seppellire sotto una colata
di cemento tutti gli animali presenti nell’area, perché contaminati
dalle radiazioni. Bacho, il caposquadra, è un reduce dell’Afghanistan e
conosce l’orrore della guerra, ma ciò nondimeno è sconvolto: Dovete
ucciderli con un solo colpo, è un ordine – scandisce ubriaco di vodka –.
E vi ammazzo se li fate soffrire». Questo accadeva nel maggio del 1986.
E poi? Che cosa è successo negli anni successivi? Ci sono animali a
Chernobyl trentatré anni dopo l’esplosione?
Chernobyl, per quanto possa suonare impossibile,
è oggi una delle oasi naturali più ricche di biodiversità del pianeta:
è, letteralmente, un paradiso terrestre. Peter Hayden, un documentarista
neozelandese, nel 2007 è entrato nella zona contaminata, dove dal 1986
non vive più un solo umano, e ha raccontato la storia di una gatta di
tre anni e dei suoi micetti, di un giovane lupo solitario che finalmente
trova la sua compagna, di due cuccioli di orso che esplorano le case
abbandonate… e poi cervi e cavalli selvatici, aquile e cinghiali, alci e
civette, castori e linci, insetti multicolori e vegetazione
lussureggiante. Il documentario si intitola «Chernobyl Reclaimed: An Animal Takeover» e merita davvero di essere visto. Tre anni fa un inviato del National Geographic ha compiuto un viaggio analogo
e ha raccontato con uguale meraviglia l’esplosione della vita animale
intorno alla centrale che tuttora emette radiazioni. Come è possibile?
La scomparsa dell’uomo ha significato
la scomparsa dei pesticidi, dei gas di scarico e di ogni altra forma di
inquinamento, nonché dei cacciatori e delle automobili, migliorando
drasticamente, nel giro di pochi anni, la qualità dell’ambiente e le
opportunità di vita. E questo spiega il ripopolamento impetuoso della fauna selvatica,
tranne che per un dettaglio: la radioattività. Gli studiosi non hanno
una spiegazione certa, ma l’ipotesi più probabile è che l’attesa di vita
degli animali sia troppo breve per consentire lo sviluppo di cellule
tumorali; in aggiunta, gli animali si riproducono molto più rapidamente
di noi e dunque, in assenza della pressione antropica, ristabiliscono
senza difficoltà l’equilibrio eventualmente intaccato da morti
premature. Infine, non sono state rilevate mutazioni genetiche
significative, tranne il piumaggio di un uccello e poco altro.
A me pare che questa storia contenga più di un insegnamento.
Tanto per cominciare, cancella una volta per tutte le immagini
apocalittiche legate al disastro nucleare: anziché un deserto dove
sopravvivono giusto i coleotteri, come ci hanno insegnato i film di
fantascienza e i rapporti degli esperti, il paesaggio post-atomico è
invece una copia del Giardino dell’Eden prima che Dio ci creasse. O,
detto in un altro modo: gli umani pacificamente intenti alla loro vita
quotidiana sono più pericolosi per la natura dell’esplosione simultanea
di 200 bombe di Hiroshima (questa è stata la potenza di Chernobyl). E
tuttavia, per un tragico contrappasso, sono anche le sole vittime
dell’incidente: siamo noi, infatti, gli unici esseri viventi che non
possono vivere a Chernobyl, perché moriremmo di cancro e non riusciremmo
a riprodurci abbastanza in fretta per evitare l’estinzione. E anche qui
c’è un insegnamento: via via che ci allontaniamo dallo stato naturale
migliorano le nostre condizioni individuali (per dire, viviamo il doppio
dei nostri cugini scimpanzè), ma peggiorano le nostre probabilità di
sopravvivenza al di fuori della sfera tecnologica in cui siamo immersi
fin dalla nascita (anzi, dal concepimento). L’apocalissi nucleare, che è
poi il rovescio impaurito della nostra sfrenata ambizione prometeica a
comandare l’universo, non è affatto un’apocalissi: tutt’al più è
l’estinzione di una specie. La nostra.
Qui sta secondo me l’ultimo e più importante insegnamento
degli animali e delle piante di Chernobyl: noi umani non abbiamo tutto
questo potere, non siamo così importanti. Noi umani non siamo i signori
della Terra né i padroni della natura, e per quanti disastri possiamo
combinare restiamo insignificanti e marginali. Possiamo fare molto male a
noi stessi, questo sì: ma neppure l’esplosione di una centrale nucleare
riesce a cancellare la natura. Al contrario, la rende infinitamente più
ricca e lussureggiante. Smettiamola dunque di voler salvare il pianeta:
è noi stessi che potremmo dover salvare.
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