giovedì 3 dicembre 2015

Frammenti di un romanzo di Andrea Nicolussi Golo

Di roccia di ferro di fango di piombo 
e di altre sciocchezze

Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata mi dirà delle cose che avranno valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Io lo so, l’ho sempre saputo, ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo.


                                                                                                            
Giampiero Motti “I falliti.”
Rivista mensile del CAI, settembre 1972




                                                                          
A tutti quelli il cui futuro già non si era avverato.







Un prologo necessario, vecchio di trentacinque anni



Dal diario di Ismaele 24 gennaio 1979.

Ripostiglio della palestra femminile dell’Istituto Magistrale Statale A. Rosmini





Che io sia morto? È possibile, anzi è probabile.

Non vedo luce.

C'è buio sopra di me, c'è buio dentro di me, c'è buio sotto di me. E c'è silenzio. Il silenzio dei cimiteri quando nevica.

Chiamatemi Ismaele. Non ne ho colpa è il nome che mi hanno dato. Il nome che non avrei mai voluto. Ho diciassette anni, sono appena stato rieletto nel direttivo del collettivo studentesco di questa città. Ne sono orgoglioso.

Questa città, però, non è la mia città, io vengo da un piccolo paese sulla cima della montagna e aspetto sempre il sabato per tornarci. Soprattutto quando nevica. Mia madre è una donna di casa, mia madre è, la casa; mio padre fa il muratore, ma teniamo tre vacche in stalla, per questo dirò sempre che sono figlio di contadini, anche se non è del tutto vero. Comunque, ho imparato piuttosto bene l'uso della falce e conosco il peso e l'odore dei letami. Forse può bastare per non sentirmi un bugiardo.

Continuo a pensare e non lontano da qui hanno preso ad abbaiare dei cani, allora questo buio non può essere la morte, non la mia almeno. Quello che è certo è che in questa mattina d'inverno è morta in me, forse per sempre, la gioia di essere vivo. E giovane. Mi è morta l’anima, ne sono certo.

Le ultime notizie arrivano da Genova, una città qualsiasi che non conosco. Il Morto di oggi si chiama Guido, Guido Rossa, nemmeno lui conosco; dicono fosse operaio all'Italsider e che fosse sindacalista della FLM Federazione Lavoratori Metalmeccanici e iscritto al Partito Comunista Italiano. Un Compagno. Non è un morto qualsiasi.

Nessuna morte innaturale è mai una morte qualsiasi. Nessuna morte è qualsiasi!

È una crosta dura questo giorno, se è giorno, e io per davvero non so cosa sia tutto questo buio e questo silenzio, se non è la morte.

È una crosta dura questo giorno, una crosta di fango, sangue e disonore e io non so se riuscirò mai pagarne il prezzo.

Sono prigioniero del mio stesso guscio. Sono un pulcino destinato a soccombere. Urlo!

Mi pento adesso di non aver ancora imparato a pregare come avrebbe voluto nonna Dorotea, sepolta l’altro ieri. Mi pento, perché sento una disperazione troppo grande per i miei diciassette anni e non so da dove incominciare a vivere, e sì, mi piacerebbe chiedere aiuto, se solo ne fossi capace. Io non so se fuori da qui, se oltre questo buio verrà ancora primavera e per quante volte, ma in questo momento prometto solennemente di non perdonare mai, finché vedrò scorrere le stagioni, quelli che hanno sporcato di sangue senza colpe la mia voglia di cambiare il mondo. No, quelli come me, che oggi hanno diciassette anni, non potranno mai perdonare chi ha seminato a fiori di morte i marciapiedi delle nostre città, lordando di oscurità il tempo in cui potevamo ancora cambiare il mondo. 

Un corvo nero mi saltella sul petto.

Gustav, il mio corvo imperiale. Sei tu, vero? Sei Tu?



Oggi gennaio 2016 all'Abbazia di San Michele



Quando smette di parlare, dall'altra parte della lastra d’avorio, traforata di minuscoli fori a forma di croce, non arriva più alcun rumore. Nulla. Una mancanza di suoni mai provata lo avvolge e inesorabilmente lo preme. Non un respiro, non un fruscio, non un colpo di tosse, non un gemito. Silenzio! 

Gottlieb, il Tedesco, aspetta paziente, un calpestio, una voce, un segno; aspetta che qualcosa accada, qualunque cosa, invece non accade niente, niente! Allora come in un sogno l’uomo lascia che i suoi pensieri si allontanino, discreti. Prima con gli occhi, poi, solo muovendo l’indice della mano sinistra, il resto del corpo del tutto immobile, il Tedesco rincorre le venature del legno, rovere antico, levigato da centinaia di anni e da milioni di mani; i peccati del mondo non lo hanno corrotto, ma lucidato a specchio. Come per gioco fanno i bambini con le nuvole, Gottlieb incomincia a intravedere strane figure in quegli svolazzi, ora chiari ora scuri, immagina animali favolosi e profili dai nasi adunchi. Per un po’, una parte della sua mente, aspetta ancora che arrivi una risposta di là dalla grata, poi si perde, senza ritorno, dentro quelle forme immaginate. Il tempo smette di essere, trascorre senza mostrarsi e, se non fosse per il male alle ossa che lo stare in ginocchio gli procura, Gottlieb lo dimenticherebbe senza rammarico. Un tepore buono di cose antiche lo abbraccia come una madre. L’inquietudine piano cede il passo a una gradevole sonnolenza. Indugiando ancora in quella posizione, senza alcuna voglia di andarsene, l’uomo appoggia la fronte alla boiserie lucida che ricopre il muro di pietra e per un altro gioco bambino, diverso da quello delle nuvole, trattiene il respiro per un tempo impossibile. Nella semioscurità gelatinosa, ormai vicino alla perdita dei sensi, ora egli distingue con precisione il battere aritmico del suo cuore, sempre più flebile e poi di colpo, contro la sua stessa volontà, l’aria fredda che irrompe e intiepidisce in fondo al palato e scende a riempire i polmoni. Finalmente!

Forse è così che si muore, di certo è così che si vive; il Tedesco adesso ascolta il sangue denso, colloso, che riprende a scivolare pigro dentro alle vene e piccoli echi che si rincorrono tra la volta e l’altare. Una sospensione, una dolcissima tregua al dolore costante. Immeritata.

In quel momento, mentre l’uomo prepara ogni più piccola parte del suo corpo ad arrendersi al deliquio, un fracasso demoniaco lo scuote. Le portelle del confessionale sbattono con violenza avanti e indietro più volte, come le porte di quelle osterie che nei fumetti, mandati a memoria cinquanta anni prima, chiamavano saloon; quei saloon dove il vecchio ranger degli Stati Uniti d’America entrava ordinando con voce in grassetto: una bistecca alta tre dita e una montagna di patatine! Ma lui, Gottlieb, oggi è solo un vecchio, desideroso di tornare a casa in fretta e quei disegni a china, firmati Galep, gli si confondono nella memoria come tutto il resto.    

Prima che l’uomo riesca ad alzarsi dall'inginocchiatoio, prima che riesca a fare qualsiasi altra cosa, una mano energica lo afferra per la collottola e lo fa girare su se stesso come una ballerina del tango; l'abate Onorio gli sta di fronte, il suo alito cattivo lo disturba, tuttavia il Tedesco non osa fare un solo gesto per sottrarsi a quella presa forte, a quella vicinanza forzata, alla mesticanza di fiati. Il frate ha il volto deturpato da sentimenti illeggibili; sono paura e rabbia, gioia per un incontro inatteso e profonda angoscia, sono sollievo e disperazione, tenerezza per un ricordo appena affiorato e orrore per una verità impensata; un numero incalcolabile di emozioni confuse si intreccia su quel suo viso da martire cristiano, solchi profondi lo incidono. Una vita intera di pensieri, ormai impossibili da riconoscere e da distinguere, si raccoglie sul fondo di quegli occhi d’acqua immobile. La faccia e le mani dell’uomo di chiesa hanno preso il colore delle candele che si consumano di fronte al tabernacolo, e goccioline di sudore, come unto che trasuda dalla pelle, gli ricamano la fronte e le guance flosce e mal rasate. Il labbro inferiore pendulo trema senza controllo, l’abate dimena le braccia come per nuotare e con la bocca spalancata cerca aria come chi stia per essere sommerso per sempre dai flutti.

Infine prorompe in un grido disperato.

«Non a me! Non a me dovevi raccontarla questa storia! Hai capito non a me! Io non ti ho sentito, io non ho sentito nulla! Io non so nulla! Io non ti ho chiesto nulla!»

Poi, con un ampio movimento da brigante di altre epoche, l’abate si avviluppa nella mantellina nera e con il cappuccio si copre il capo, più per sottrarsi alla vista che per il freddo, quindi, con passo furioso si avvia a uscire da quella che sino a pochi istanti prima era la casa del suo Signore e che adesso non sapeva più cosa fosse diventata. Ma un attimo avanti di arrivare al pesante portale di bronzo il frate si ferma di colpo, rimane per un momento con un piede sollevato, poi ritorna sui propri passi e si mette dinanzi a Gottlieb, che nel frattempo non aveva mosso nemmeno gli occhi, gli punta l’indice in mezzo al petto e con voce che sembra salire dalla profondità di quelle pietre millenarie che stanno loro attorno sibila:

«E comunque non ti ho assolto! Mi hai sentito Tedesco, non ti ho assolto!»

In apparenza pacificato il frate riprende la sua strada, ma prima di uscire, questa volta per davvero dalla chiesa, senza neppure voltarsi grida di nuovo e nella sue voce c’è costernazione e  morte:

«E non ti assolverò mai! Mai! Ricordatelo bene, mai! E non ti perdonerò!»

Rimasto solo nell’ampia navata ormai buia, Gottlieb si avvia strascicando i piedi verso la doppia fila di banchi, si lascia cadere a sedere e chiude gli occhi. Con uno sforzo inenarrabile l’uomo cerca le parole del Padre Nostro, ma non ci riesce, non le ricorda, allora rimane immobile a testa bassa, senza pensieri.

Fruscii garbati inondano la basilica; ali di angeli? Di demoni? Di farfalle sopravvissute alla loro stagione? Fughe di vento? Solo quello; solo quello.

Quando anche Gottlieb esce dalla chiesa, un fitto nevischio e le ombre della sera confondono ogni cosa e impediscono quasi di vedere il contorno della severa costruzione che forma il nucleo centrale dell’abazia un po’ più in alto.

Nel parcheggio, il pullman ha le porte aperte e il motore acceso, molti dei pellegrini vi sono già saliti per ripararsi dalla bufera. L’autista, invece, sta piegato con le mani nella neve, intento a montare le catene e, di tanto in tanto, sfiata con la forza di un capodoglio, inveisce contro i preti e gli imbecilli che in pieno inverno avevano avuto la pessima idea di salire al santuario. I moccoli dell’autista precipitano più fitti dei fiocchi bianchi che volteggiano nell’aria. La neve, sorda a tanto rancore, piroetta leggera e inconsapevole; e piano si posa a ridipingere il mondo. Purezza inutile la neve. Verginità sprecata.

Ventre sterile.

Gottlieb punta dritto verso il mezzo di trasporto, una perla nera, dallo stomaco, gli risale l’esofago e sembra soffocarlo, i suoi quasi settanta anni, che sino a quel mattino aveva portato con noncurante disinvoltura, ora gli scorticavano le spalle come uno zaino messo male. Nel primo sedile del pullman, Ijaba, la sua giovane governante eritrea, ascolta musica nelle cuffie e non lo degna neppure di un cenno quando lui le scivola accanto. L'uomo va a sedersi da solo nell'ultimo sedile in fondo, quello dei ragazzacci. Una profonda malinconia lo invade.

«Potrei morire anche adesso.»

Di morire, al Tedesco, da tempo non importava più nulla, «è la cosa più interessante da fare ad una certa età» ripeteva sempre più spesso a chiunque gli chiedesse della sua vita. Morire in peccato mortale però, a quel quasi vecchio, un po’ di fastidio glielo procurava comunque.

L’uomo si passa entrambe le mani sulla faccia, si sorregge il mento con le palme aperte nella sua posa consueta; ha una sola certezza; ogni assoluzione sarebbe stata infinitamente più dolorosa.

I sogni non si assolvono. Mai!

Appena l’autista avvia il pesante mezzo e con cautela affronta la discesa, appare la valle stuprata da troppi uomini cui la prima neve sembra donare un inaspettato sollievo.

Gottlieb non vede, non sente, tiene gli occhi chiusi e pare dormire. E sognare.



Ieri, a metà degli anni settanta del ’900

In una città italiana, allora sede di una industria di automobili dove tutto è incominciato.



Attraversato dalla luce di un tubo al neon giallastro, che pende sbilenco sopra al tavolo, il fumo riflette il chiarore con la stessa intensità liquida del latte appena munto e le cose e le persone vi galleggiano a malapena, di tanto in tanto, infatti, qualcuno sparisce alla vista, come inghiottito per sempre da quel luccichio opalino, per poi riapparire in un punto lontano e diverso della stanza. Anni di miasmi e di disastri.

«Domani allora; domani se credono di poter entrare devono sparare per primi e calpestare i miei resti mortali, perché anche da morto mi metterò per traverso!»

«Non essere cretino Onorio, e le frasi storiche lasciamole ai fascisti, va.»

«Ecco Gandhi, il nostro mahatma teutone o cimbro o cosa cazzo è, ha detto la sua!»

«Ecco guarda che tu, Gandhi, non hai nemmeno il diritto di pensarlo!»

Nella voce di Gottlieb vibra un sentimento offeso come quello di un bimbo schiaffeggiato sul sedere.

«Ti ricordo, caro il mio crucco, che per il sant’uomo indiano, Mussolini era l’inviato della provvidenza!»

Gottlieb si alza furibondo e si avvicina minaccioso al compagno, lo ferma, all’ultimo, quando lo scontro fisico sembra ormai inevitabile, una voce severa: «Porco Giuda, se questo vi pare il momento di menare le mani, possiamo anche alzare il culo e andarcene a dormire! Cerchiamo invece di organizzare il turno per il picchetto.»

Sono in cinque, quattro uomini e una donna, seduti attorno a un tavolo, sono in cinque e fumano per cinquanta, anni di fumo li chiameranno un giorno quelli che ne negheranno la gravezza del piombo, anni formidabili li chiameranno quelli che, nel tempo, hanno fatto scorte di colore rosa con cui colorarli quegli anni.

 Sono in cinque, entrati in fabbrica poco più che bambini, arrivati alla grande città dagli angoli più disparati del paese. Dalle montagne.

Agnelli svezzati alla catena di montaggio.

Onorio Marchetti è il più piccolo della compagnia, studia di notte e ha trovato ospitalità a credito dai frati cappuccini. Gottlieb è il più anziano, lo chiamano il Tedesco, sembra che a casa sua parlino una lingua germanica antica, del milleduecento o giù di li, come se da qualche parte oltre il displuvio delle Alpi si parlasse la lingua italiana di Cielo d’Alcamo. Per questo lo chiamano il Tedesco, ma anche per la sua pragmatica rudezza. Il terzo, Lorenzo, è il più buono di tutti, innamorato perso della ragazza con i piedi sul tavolo, compagna di Gottlieb, ossessionato dalla roccia, stregato dai libri di Sàlgari. Lorenzo, padre piemontese, madre veneziana di terra ferma, non manca mai di correggere l’accento: Salgàri.

La voce severa è quella di Ernesto, come il Che, locuzione diventata nome e cognome; “ErnestocomeilChe” delegato di fabbrica; al sindacato lo sopportano con lo stesso rassegnato fastidio con cui gli insonni ascoltano il ronzare del frigorifero alle due di notte. Un gran rompiballe, dicono di lui appena gira la schiena ma non è ancora troppo distante perché non possa sentire perfettamente.

E poi Nives e poi Nives.

Vestono tutti barbe ed eskimo come milioni di altri operai. Tutti tranne Nives, come è naturale, lei indossa un grazioso vestito a fiori, margherite o gerbere, deliziosamente fuori moda da tanto tempo, un vestito di taglio sartoriale anni cinquanta; il vestito delle grandi occasioni di sua madre. Il capellino giallo chiaro a cloche, calcato sui corti capelli rossi, la allontana all’infinito.

Nives e Gottlieb da qualche tempo vivono assieme, «senza essere sposati» mormora tra vergogna e disperazione la madre della ragazza, vivono assieme, ma si incontrano più spesso in fabbrica o nei cortei che a casa, il loro tempo è fatto a brandelli dai turni, dagli impegni di sindacato e di partito. Dalle rocce a strapiombo che rubano Nives alla terra.

«Facciamo così: il primo che è il più rognoso, tu Gottlieb con Onorio e i vostri. Il secondo lo faccio io con i miei e poi a sera Lorenzo e Nives.» Nella voce del delegato di fabbrica il timbro di chi pronuncia parole definitive.

«Io con Onorio non faccio proprio niente, è un provocatore. L’ultima volta ha aperto il cofano alla camionetta della celere e pretendeva che il celerino gli dicesse la cilindrata.»

«Ma sentitelo il coglione crucco! Io non provocavo nessuno. Secondo voi è una provocazione chiedere con gentilezza la cilindrata di un mezzo a motore?»

«Sì, è una provocazione bella e buona, e se quella volta ti spaccavano la testa, ti lasciavo là sul marciapiede!»

«Bel compagno, proprio un bel compagno. Ce ne fossero di compagni come te! Crucco dalla testa ai piedi! Un crucco sei!»

«Piantatela! Basta!» L’urlo di ErnestocomeilChe sembra aprire uno spazio fisico nella compattezza del fumo e il pugno calato con forza sul tavolo scompiglia i fogli del ciclostile. «Si fa così! Facciamo così!»

Nel mutismo astioso che segue, il ronzio del tubo al neon è la vibrazione di mille insetti agonizzanti. In tutto quel silenzio sgradevole, la voce cortese di Lorenzo suona incongrua come le ciliegie a novembre. «Io domani volevo andare in montagna e non so se…»

ErnestocomeilChe ha un moto di insofferenza: «Cercherò Fabrizio!»

«Io vado con lui.» Nives non ha aperto bocca per tutta la sera e la voce adesso le viene fuori rauca per il fumo e strozzata per la tensione, così ripete di nuovo con forza: «Io vado con lui!»

Gottlieb rimane impassibile, non uno sguardo rivolto alla donna, non un muscolo si muove sulla sua faccia antica di contadino prestato alla fabbrica.

Alzandosi, ErnestocomeilChe si lascia andare come in un lamento: «Fate come volete.»

Fuori sulla grande città, poche stelle velate sorvegliano il sonno quotidiano di milioni di donne e uomini che ne ignorano l’esistenza.


10 commenti:

  1. Ben ritrovato Andrea. Vedo che ora ci riserva anche l’anteprima di un romanzo.
    Certo che pare non si sia scelto un tema troppo lieve: gli ani di piombo sembrano distatnti anni luce dalla nostra epoca disimpegnata.
    Apprezzo quel suo modo di intersecare la storia, Quella con la “S” maiuscola con quella minuscola, cosa che ha già evocato nella sua ultima opera e son ben curioso di leggere il prosieguo.

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  2. Interessante, sono curiosa anche io, ma è un romanzo già pubblicato? Con che cadenza verranno pubblicate le puntate? Grazie.

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  3. Ahi ahi mi sa che non ho fatto una buona azione... prima di tutto grazie a Philo per l'apprezzamento. Poi: no Laura non è pubblicato è nuovo nuovo ancora in ebollizione e sto cercando di farlo pubblicare. Purtroppo non so ancora se posso permettere a Carla di pubblicarlo interamente sul blog. Ecco volevo solo capire facendo leggere l'incipit se poteva destare qualche interesse, perché come giustamente nota Philo, non è argomento semplice ne allegro. Si parlerà di montagne e fabbriche; l'Altipiano del Maestro Rigoni Stern e la città-fabbrica di Volponi. Uomini delle montagne che non sanno più cosa sono diventati. E poi ci sarà la nascita dell'arrampicata libera il cosiddetto Nuovo Mattino. Boh in ogni caso mi sembra che non abbia riscosso consensi dai lettori del bolog; ci penserò. Andrea

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    1. Andaloche d’un Toi, … cossa che me toca légere!
      Non si scrive per gli altri ma per se medesimi stessi . Per gli altri scrivono i giornalisti, i professori, i politici, i danbrowniani e i pennivendoli d’ogni fatta. Il consenso, mio caro, semmai si crea, non si trova bell’apparecchiato e comunquemente va ritenuto a dosi omeopatiche e usato preferibilmente a scopi igienici (chi se lo può permettere). Se hai scomodato quel sapientone del Philo, puoi già latrare alla luna. Tempo fa venne uno che di skills ne aveva, diceva quel che voleva e del consenso si faceva un baffo. Infatti lo picàrono via. Per aspera ad astra.

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    2. Don ho compreso una parola su tre , capisco meglio quando scrivi vetero alto asticano (che come sai mi ha fatto innamorare). Ah ma per me ho già scritto, fatto, 58 pagine word, più o meno 150 pagine di libro (mai scirvere di più). In ogni caso non credere a quelli che scrivono SOLO per se stessi sono pelosi, si scrive anche per narcisismo, poi c'è chi sceglie. Il mio editore vuole una storia cimbra, è disposto persino di darmi un anticipo (cosa più unica che rara di questi tempi) e io cosa faccio? Gli ambiento un romanzo tra Torino, (la Lancia di Borgo san Paolo) la Val susa e l'Ossola, tra partigiani, terroristi, arrampicatori e strani fatti misterici, con un solo capitolo lusernato. è la storia che mi dovevo raccontare per cacciare qualche fantasma troppo invadente e l'ho scritta. Adesso non ho editore, non ho anticipo, però ho una storia, già ma quella l'avevo anche prima, le mie storie sono la mia vita, sono io. Continuano a mancarmi un editore, un anticipo e sopratutto dei lettori; i lettori sono una droga. Non so però cosa siano gli skills per la miseria,( credo di essere più vecchio di te) e quanto alla creazione del consenso sono stato candidato una sola volta a 18 anni (se me lo chiedi ti dico anche il partito) per le comunali non ho preso nemmeno un voto, non il mio per onestà intellettuale, non quelli dei miei genitori, che di rogne gliene creavo abbastanza da sempre senza anche andare in comune, ecco ho capito allora che io e il consenso siamo cose diverse, come è diverso voler far leggere agli altri ciò che si scrive.
      Un caro saluto Andrea

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  4. A ben lora ciò, .. a te me inviti a nosse.
    A te fé ben, setu, toi a mandare a fanbrodo quili chei te insìngana su col cimbro. Ili i vol solo insoaxarte come on sambélo par tor de berta i padani chei ve figura coi corni, vestìe de pele de conejo a xigare col jodel fra on sojo e l’altro e coi doli fra le savàte. Manda a fanbrodo anca l’anticipo, tanto i schei i xe del diaole, se sa.
    S’i fosse editor, ..tosto ti pubblicherei, s’i fosse Amazon ..pur ti propagherei, s’i fosse Bellarmino, allor sarei giocondo, ..ch’è qual novello catechismo ti promulgherei.
    S’i fosse Sponcio, ..com’i purtroppamente son e fui, ..torrei le donne giovani e leggiadre, vecchie e laide lasserei altrui.

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    1. Così è Don, è così. 
      Ma ti rendi conto che quando scriveva Cecco Angiolieri erano già trecento anni che si ciauscava da queste nostre parti, e adesso siamo rimasti gli ultimi come i mohicani. e adesso vorrebbero che andassimo in giro a fare i pagiazi. L'illustre Cardinale mi fa ancora paura, spero sia in paradiso che all'inferno non lo incontri se no mi processa: tu, sì proprio tu cosa hai fatto per la tua Lingua? 
      A te le donne giovani e leggiadre Don e sii felice. Andrea

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  5. Andrea non avere paura, i lettori dei 2 libri precedenti senz'altro saranno felici di accaparrarsi il terzo, auguri

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  6. Ha ragione Giorgio Andrea. Non devi basarti sui commenti del blog perché la quasi totalità credo legga senza commentare ma questo non significa mancanza di apprezzamento. Forza dai che siamo tutti bramosi.

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  7. A dirìa ben, ciò. Fin che ste live sentà sul soco in tirachéte e co le man zonte, a vardar par tera, a no te brùj su gninte, setu. Vanti, nemo, dei! A la to età te ghe da s-ciocare fa na stropa.

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