domenica 14 marzo 2021

La vecia ìdola

 
La vecchia ìdola abbandonata nel cogoléto
[Foto di Amelio Toldo]

Il compressore della cava di Felissòn
[Foto di Amelio Toldo]

【Gianni Spagnolo © 21III4】
Solo chi bazzica i luoghi ormai dimenticati ha modo d'imbattersi dal vivo in qualche reperto del nostro minuscolo museo etnografico all'aperto. Principalmente sono i vecchi siti delle cave di marmo che mostrano qualche residuo vintage di macchinario o di strutture metalliche e cavi arrugginiti e abbandonati. Altrimenti solo l’osservatore più attento riesce a discernere i siti delle vecchie are, dei baiti, dei covoli e delle carbonare ormai soffocati dalla vegetazione e dal tempo. Le due cave operative ai margini estremi della conca di Tinasso, quella di Flavio dalle parti del Priòn e quella di Felissòn sulla Val del Corvo erano attive negli anni ’50, quando un po’ in tutta la montagna vicentina si aprirono cave per ricavare scaglie di marmi da usare in quella tecnica di pavimentazione che va sotto il nome di “pavimento in palladiana”, allora di moda. Questo tipo di posa si differenzia dal tradizionale terrazzo alla veneziana in quanto non si usano frammenti o granuli di marmo, bensì delle lastre o delle scaglie di dimensioni maggiori, solitamente di vari colori. Ciò permetteva lo sfruttamento anche dei giacimenti marmiferi più marginali e che non presentavano pezzature e qualità tali da essere usati per impieghi più pregevoli e remunerativi. Erano per lo più attività effimere per tentare di arginare la piaga dell’emigrazione, spesso situate in luoghi impervi e con condizioni di lavoro durissime e pericolose. Un’epoca che durò poco, ma che lasciò le nostre montagne ingombre di attrezzature abbandonate e i pendii lacerati da candide e vistose ferite. Col decennio successivo migliorarono un po’ dappertutto le condizioni di vita e nessuno pensò più di rimuovere o riciclare quella ferraglia, che, se solo fosse stata abbandonata prima della guerra non ne sarebbe rimasto neanche il ricordo.
Fa quindi un po’ di tenerezza scoprire in quei pressi, appoggiata in un cogoléto sconto, una vecchia ìdola di legno, lì da chissà quanti anni. Questo era un attrezzo comune un tempo per portar giù dalla montagna tutta una serie di materiali, specie dove non sarebbe passato un carretto o un barosso. Fassìne, farlèto, légne, fén e chissà cos’altro. Era il mezzo di trasporto preferito di chi abitava le contra’ dei Costa e bazzicava i boschi dello Scalòn, del Reséco e della Val de Tognòn, ma ce n’era una quasi in ogni famiglia. Era sostanzialmente uno slittone che poteva operare su vari terreni, non solo quando innevati. Un 4x4 four-seasons con ridotte e freno a strosso, di semplice struttura e manutenzione e dalla guida intuitiva. le cufe (o le raje) e i branchi erano realizzati con pali di orno piegati al naturale e terminanti davanti in due manéte più sottili per la guida, solitamente riportate. I traversi erano in legno di albaréla, che portava anche il demonio senza scheggiarsi o deformarsi e che s'inserivano a péndola sulle quattro colonéte fissate sulle cufe. Di ferro ce n’era poco o niente. Quattro pezzi in tutto, facilmente smontabili, trasportabili e riassemblabili fissandoli saldamente a culpi de doja. Il massimo della semplicità e dell'efficenza. La sua costruzione era alla portata delle comuni abilità degli uomini, mentre le dimensioni e lo scartamento potevano essere adattati alle necessità dei percorsi e della famiglia. 
C’è chi insiste nel legare lo sviluppo della civiltà alla diffusione della ruota. Beh, qui da noi la ruota la si conosceva anche, ma la si usava poco. Fare le ruote in legno di un carretto era un’operazione laboriosa e costosa e richiedeva il ferro. Divenne necessaria quando le strade ed i sentieri vennero adattati al traffico carreggiato, cioè dalla seconda metà del Milleottocento in poi. Vanti se nava a strosso, sia pal motore che pal freno. A jéra tuto on strossamento: tirava le bestie, tirava i omeni e tirava anca le fémene (fursi pì dj òmeni). Se tirava e se frenava, spessegàndo cole sgàlmare e i scalsaròti sui salìsi. Qui giovava alquanto la pavimentazione dei sentieri a salìso, per cui le ìdole potevano scorrervi sopra in tutte le stagioni e dosando magistralmente attrito e strosso si poteva portar giù qualsiasi cosa.
"Ídola" è un termine tipico delle parti nostre dall'etimologia oscura. La sua ampia diffusione è testimoniata dai molti nomi diversi con cui è chiamata  nei paesi della montagna vicentina. 

9 commenti:

  1. ultimo che la adoperata giuliano fondasi

    RispondiElimina
  2. Come dici, la cava di Flavio non era propriamente sua, lui era solo resposabile, il proprietario era un certo Ferronato, me ne ricordo bene, perché è a costouo che abbiamo dato in affitto due terrazzamenti per lo scarico del marmo stesso. Nico

    RispondiElimina
  3. i reperti che ho fotografato non erano nella cava che gestiva flavio ma in quella che gestiva lorenzi felice e i suoi figli che si trova sopra i costa

    RispondiElimina
  4. Io penso invece Che l’ ultima a utilisarla Sia Stata la mitica NENE Che manca molto in contra’

    RispondiElimina
  5. Gianni, dimentichi una storia importante , le lame che si inchiodavano sotto I malgoni per lo
    Slittamento nelle segherie dei pra dell’astico, si riciclavano le lame a nastro Che avevano la scarogna di imbattersi
    In una scheggia!!
    Terrore dei segati. La saonda (scodega del mascio) Che si metteva sotto per uscire dalle parte platte della strata.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Go capìo, Mario, ma sa scrivo tuto mi no te eserciti la memoria ti.

      Elimina
    2. grazie Gianni ciao

      Elimina
    3. Mario, parché coi to ricordi e na stcianta de saònda no te ònfeghi el Blog? Ne manca on corispondente de oltra la Val de l'Orco. ;-))

      Elimina
  6. penso abbia ragione mario l"ultima ad usare la idola sia stata la nene devono esserci delle foto di lei che la trascina in occasione del (ritorno dal bosco ) che speriamo di rifare presto

    RispondiElimina

Avvisi funebri (FC)