【Gianni Spagnolo © 200609】
Credo che, almeno da noi, nessun decennio abbia segnato un taglio netto fra passato e presente come gli anni sessanta del secolo scorso. Certamente usi, costumi e abitudini non cambiano in maniera repentina e qualsiasi passaggio richiede un po’ di acclimamento, tuttavia nessun altro periodo è stato così denso di cambiamenti come quei fatidici anni. Il moplen, la fòrmica, la lavatrice, la televisione, il telefono, il bagno in casa, il frigo, i jeans, i Beatles, la motorizzazione, … sono arrivati quasi di botto proprio in quegli anni. Parallelamente avveniva anche una rivolta sociale da parte delle nuove generazioni che portavano sugli scudi i diritti laddove imperavano da sempre i doveri gerarchicamente ordinati. Perfino Santa Romana Chiesa, fondata sulla Tradizione, s'avviò ad una profonda riforma col Concilio Vaticano II.
Se negli anni cinquanta, dalle parti nostre, i costumi non erano sostanzialmente dissimili dai decenni o addirittura dai secoli precedenti, con i favolosi anni sessanta si compì una trasformazione destinata a lasciare il segno. Questo non solo in termini di sviluppo tecnologico, ma anche in campo culturale, sociale, politico e religioso. La generazione dei veci, dei nostri nonni - quelli nati ancora nel secolo prima, per intenderci - non si scompose più di tanto e si lasciò scivolare addosso questi avvenimenti come l’acqua sui coppi, vivendo grossomodo con le stesse modalità di prima e concludendo proprio in quegli anni il suo percorso terreno. Quella dei nostri padri visse intensamente e forse inconsciamente quel periodo trovandosi nel pieno vigore dell’età; perciò se ne fece carico passando dal mulo allo sbarco sulla luna. Avendolo provato, non avevano affatto nostalgia del mulo e si proiettarono fiduciosi verso la luna e le facilitazioni che il Progresso prometteva. La mia generazione visse invece queste cose con la leggerezza della fanciullezza e senza gran consapevolezza. Riuscì a vedere gli ultimi muli e anche il primo missile, conservando però, in fondo, anche un po’ di nostalgia del mulo: probabilmente perché non aveva fatto in tempo a provarlo.
Dal mio minuscolo punto d’osservazione, io registravo allora i cambiamenti che impattavano più direttamente sui miei riti quotidiani. Abitando accanto alla Cooperativa, era compito anche mio provvedere alla spesa alimentare di casa con un via vai che non prevedeva certo l’uso del carrello. Il frigo non c’era e perciò s'andava a provvedere secondo il bisogno del momento comprando a etti. Tanto, la conserva te la pesavano alla bisogna tirandola sù dal bandòn, la farina con la sessola dal sacco, così lo zucchero e tante altre cose. Era venduto quasi tutto sfuso, anche la varechina col butigliòn. Poi i te inscartossava la roba usando la carta appropriata, tanto che lo zucchero aveva anche l’imballo del suo specifico colore celestino: la carta da sùcaro. Ancamassa!
Per le merci semisolide e untuose, usava frapporre una carta pergamenata semitrasparente, che era oro per fare i pìroli per la cerbottana rigidi e appuntiti, precisi e assai contundenti. Il bar-code era una matitina temporaneamente parcheggiata sull’orecchio del casolìn, con la quale Bepi annotava la spesa sul libreto, facendo prima i conti sulla carta dello scartosso per il cliente successivo. C’erano allora ben sei casolini in paese e, nàndo a èti, secapisse che il via vai era continuo; così come le ciàcole dele fémene e quel che ghe va drio. Ma ecco che incombeva il Progresso, che si manifestò al fanciullino che ero, sotto le arcigne spoglie di una Legge dello Stato: la 580/67. Questa imponeva semplicemente che gli sfarinati fossero venduti al dettaglio confezionati e non più sfusi, oltre a dare indicazioni sulla preparazione e commercializzazione della pasta e del pane. Na Rivolussiòn!
Basta pescare intel saco cola sessola! Basta stciafare na guciarà de conserva sula carta velina, col déo dela balansa chel seitava vanti e indrìo che no te capìvi gnente! Basta anca el sùcaro intel scartosso celestin, fato su a arte coi burdi rissolà! Presto anca la late, che andavo a prendere col brentélo dai Mosca péna mònta, spetando ale volte in cusina chei vegnesse su dalla stala, sarebbe stata venduta pastorizzata e confezionata asetticamente dalle latterie. Era fornita in sacchi flosci di plastica da litro o da mezzo, consegnati sulle soglie delle case o dei negozi: un insopprimibile invito per noi bociasse a prenderli a calci per farli scoppiare. Di lì a poco arrivò un'ancor più strana confezione in cartone colorato di forma piramidale. Pianpianèlo sparì dai negozi quell’inconfondibile e caratteristico odore che condensava tutti gli odori delle mercanzie vendute sfuse in vario e precario stato di conservazione. Resisteva ancora quello dei formaggi, dei salumi e del baccalà, ma presto l'avvento del banco frigo mise la museruola anche ad essi. Pure sul fronte spirituale cominciarono intanto le destabilizzazioni del mio nuovo incarico da mòcolo. Avevo appena imparato a suonare i campanelli a tempo, a rispondere qualcosa in latinorum, a tenere bene il piattino sotto la lingua a chi s’inginocchiava sulla balaustra, a far roteare il turibolo comesideve, che... tàchete! Cambiava tutto. Via le balaustre, via el prete de schena in sima l’altare, via il latino per far posto all’italiano. Amen! Non serviva neanche più indenociarse quando si attraversava la navata, perché anche il Santissimo, che pur era El Paron de casa, andava stranamente allocato in più defilati anfratti. Avrebbe resistito ancora per molto tempo solo el Rechiemeterna: Rechiemeterna dona isdomine lus parpetua luciatei rechiescant'in pace. (Réquiem aetérnam dona eis, Domine, et lux perpétua lùceat eis. Requiéscant in pace). Forse perché era corta e legata ai cari defunti.
Beh, non è che l’italiano ci fosse allora molto più familiare del latino, ma almeno lo s’imparava a scuola. Anche lì però il Progresso tacava a farsi sentire, mandando in pensione i vecchi pennini a favore delle penne a sfera. Vabén chei penini schincàva, ma neanche le prime biro erano granché efficienti: oltre a costare ben di più, seitavano a sbavedare. Ma la cosa che più mi colpì direttamente di tutto sto progresso fu che le due becarìe del paese cessarono di macellare le bestie in proprio. Era uno dei tanti riti della bociarìa quello di andare a supervisionare e tenpelàre la bestia legata fuori dal macello in attesa di finire sulle tavole paesane, per vederne poi la testa infilata nei corni d’acciaio fuori dalla becarìa. Toni Nicola mi lasciava straordinariamente assistere alle operazioni di macellazione e non me ne perdevo una. Spesso mi portava con lui in giro per la valle e la montagna a prendere le bestie col camion. In prossimità della Pasqua era la volta dei capretti, che si prelevavano qua e là dove c’erano capre, talvolta anche agnelli, ma cuìli solo in Rotso. La mia preferita era la stalla del Talchino Majaro, a Casotto, che si raggiungeva dall’altro lato dell’Astico attraversando uno stretto e precario ponte di legno. Avevo paura ad attraversarlo nell’andata e ancor più nel ritorno, con in braccio gli animali irrequieti e scalcianti che facevano ondulare l’esile passerella. Erano le ultime espressioni d’una società semplice ed autarchica che il Progresso stava velocemente fagocitando. Così era da noi, ma poi mi resi conto che in pianura e ancor più nelle nazioni vicine queste cose erano già accadute da tempo. Noi eravamo indietro di una generazione, forse anche due.
Molto interessante questa descrizione degli anni 60. Mi sono rivista in quel periodo. Tanti ricordi e nostalgia. Ciao ❤️
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