mercoledì 3 giugno 2020

La bala de oro

Gianni Spagnolo © 200529
Ancor oggi da noi, per significare un colpo di fortuna, si usa dire: “El ga cavà la bala de oro”, ma non tutti conoscono l’origine  di questa espressione. La Serenissima Repubblica di Venezia era un regime aristocratico con rappresentanti democraticamente eletti; certo non nel senso universale moderno, dovendo essi provenire dalla nobiltà cittadina. Nel suo lungo corso la Serenissima dovette affrontare le derive legate al mercanteggiamento degli incarichi pubblici ai vari livelli e trovò modi originali di porvi rimedio. Alcuni termini elettorali moderni, come broglio e ballottaggio, derivano infatti dal veneto e da queste circostanze. Specialmente il Doge, massima autorità della Repubblica e con attributi regali, doveva essere al di sopra delle parti perciò la sua elezione messa al riparo da maneggi e accordi sottobanco. Ecco che qui entrava in gioco un complicato sistema di votazioni dove compare la nostra bala de oro. A Venezia vi fu sempre una grande attenzione nel bilanciare i poteri istituzionali con adeguati controlli, e protezioni di vario genere vennero sempre adottate per evitare prevalenze dell'una o dell'altra fazione. La stessa struttura istituzionale cambiava nel tempo con una rapidità tale da impedire il consolidamento di lobbies. Questo fu forse il segreto della longevità del governo della Serenissima. La storiografia ufficiale non ci ha granché istruito sulle vicende di questa nostra repubblica, come se la sua  millenaria storia fosse una trascurabile parentesi. Venezia seppe far coesistere popoli diversi, gestire un territorio frastagliato e composito che andava dal Cadore alle isole greche e districarsi con i potentati coevi con il pragmatismo e la lungimiranza che furono alla base della suo successo e della lunghissima esistenza.
Ma vediamo un po' l'elaborata procedura di elezione del Doge:
- Dopo che un doge era morto, il giorno destinato agli atti della nuova elezione, il più giovane dei sei Consiglieri ducali doveva recarsi in chiesa San Marco a pregare fervidamente. Il primo fanciullo che incontrava, uscendo di chiesa, veniva condotto a Palazzo ed era questo il fanciullo destinato ad estrarre dall’urna le palle dei suffragi. Il “putto” veniva vestito a nuovo con sopravveste di color rosso e il giubbetto foderato di pelli se d’inverno, di raso se d’estate, calzette e scarpe scarlatte con fibbia d’argento e nastri al polpaccio di seta nera. (di questo ragazzetto fortunato la Repubblica provvedeva poi a finanziare gli studi fino alla maggior età).
Il Maggior Consiglio, esclusi i consiglieri di età inferiore ai trent’anni, si era intanto raccolto; entrato il ragazzo, chiamato per le sue funzioni il “ballottino“, si procedeva subito alla estrazione delle ballotte che erano tante quanti i componenti del Maggior Consiglio, e fra queste, trenta erano d’oro. Coloro ai quali toccavano quest’ultime rimanevano nella sala, mentre gli altri dovevano uscire, i componenti il Consiglio erano presso al migliaio. Questo era il primo di ben dieci scrutini, cinque dei quali operati col mezzo della sorte e cinque per designazione diretta; un complicato magistero di combinazioni escogitato al fine di rendere vano qualunque broglio, qualunque intrigo.
Per esser brevi, la curiosa e complessa votazione così si svolgeva: Eletti i trenta con “la balla d’oro“, di questi ne venivano estratti a sorte nove. I nove ne nominavano per ballottazione quaranta. I quaranta ne riducevano per sorteggio a dodici. I dodici ne eleggevano per suffragio venticinque. I venticinque per sorteggio si riducevano a nove. I nove ne nominavano quarantacinque. I quarantacinque si riducevano per sorteggio a undici. Gli undici ne nominavano quarantuno, ultimi e veri elettori del doge, e per una legge del 1553 dovevano essere approvati ad uno ad uno dal Maggior Consiglio.
Il metodo dell’elezione riproposto in versi nei “Canti del Popolo Veneziano” di Jacopo Vincenzo Foscarini:

Trenta elegge il conseglio,
Di quei nove hanno il meglio;
Questi eleggon quaranta;
Ma chi di lor si vanta
Son dodici, che fanno
Venticinque: ma stanno
Di questi solo nove,
Che fan con le lor prove
Quarantacinque a ponto,
De’ quali, undici in conto,
Eleggon quarantuno,
Che chiusi tutti in uno,
Con venticinque almeno
Voti, fanno il sereno
Principe, che corregge
Statuti, ordini e legge.

I quarantuno, dopo ascoltata la messa dello Spirito Santo in San Marco, si raccoglievano in apposita sala e prestato il giuramento di fare una elezione secondo coscienza, cominciavano a votare sui nomi proposti a schede segrete. I segretari facevano lo spoglio, e il doge eletto doveva riportare almeno venticinque suffragi. Il nuovo eletto si mostrava al popolo radunato dentro la chiesa di San Marco dove il più anziano d’età dei Quarantuno proclamava “Questo xe el vostro Doxe, se ve piaxe”, seguiva poi la messa in San Marco, il giro in piazza con il doge seduto nel pozzetto e infine l’incoronazione sulla Scala dei Giganti del Palazzo Ducale, dove egli giurava sulla promissione ducale e quindi riceveva il camauro (cuffietta bianca) dal Consigliere più giovane in età e la Zogia (pubblica corona) dal più anziano, con la formula “Accetta la corona del Ducato veneziano“.


1 commento:

  1. Come sempre una lettura ricca , interessante.Gianni non si smentisce mai. grazie

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