domenica 21 giugno 2020

Piegoramìnti

Gianni Spagnolo © 200617
Si sa che l’allevamento del bestiame ha sempre caratterizzato l’economia dei 7 Comuni, in virtù delle caratteristiche fisiche proprie del territorio, nonché dei particolari privilegi goduti in passato.  Allevamento che fu principalmente ovino finché perdurò la Serenissima e il diritto di bisenàdego*, per trasformarsi poi in bovino nel corso dell'ultimo paio di secoli. L’arte casearia s’affinò dunque con formaggi ovini prima di diventare un’eccellenza del territorio con i formaggi Vezzena ed Asiago, che sono invece prodotti tipicamente vaccini. L’allevamento delle pecore trovava una sua rilevante ragion d’essere anche nella produzione della lana, materia prima preziosa dei secoli andati. Questa attività era assai diffusa in tutti i 7 Comuni, dove si stima che alla fine del millesettecento si contassero addirittura duecentomila capi ovino-caprini, variamente distribuiti e con prevalenza nell’area di Foza.
Non sappiamo invece granché di quanto esso fosse diffuso nella nostra valle. Qualche toponimo, come Valpegara (Val Piegorara?) sembrerebbe indicarlo. Anche lo Strodo del Pastore che conduce a Tinasso lo attesta, come è documentato che proprio Tinasso fosse un tempo una malga di pecore. Pure le molte aree adibite a pascolo accanto alle abitazioni censite nel Catasto Austriaco farebbero pensare ad un allevamento diffuso di piccoli greggi. In tempi più recenti s’impose invece quello stazionario in stalla di capre e mucche, che è infatti quello che a noi è rimasto impresso. Non ho trovato invece notizia di pastorizia transumante; forse si faceva troppo in antico per aver lasciato tradizione orale, oppure era praticata in forma ridotta in ambito locale, alternando stagionalmente i pascoli montani a quelli vallivi.
C’è tuttavia un particolare che caratterizzava i pastori transumanti: il gergo che parlavano. Si, perché i pastori fra loro si esprimevano usando un lessico gergale che non era compreso dai contadini di pianura presso i quali transitavano nella brutta stagione. Questo non era solo prerogativa dei pecorai dei 7C, che avevano già la loro ostica lingua madre nel cimbro, ma anche dai loro colleghi del bellunese e delle altre zone venete a spiccata vocazione pastorale transumante, con i quali condividevano la marginalità dovuta alla progressiva decadenza di questo antico mestiere. Perciò l’uso di un consistente numero di voci del ‘cimbro’, è rimasto nella parlata dei pastori come gergo di mestiere. Ciò si spiega se si tiene conto  dei contatti secolari che i pastori hanno avuto con gli abitanti delle aree pianeggianti, nei confronti dei quali intenzionalmente esercitavano la vis occultandi.
I pastori del vicentino, pur avendo fin dal 1404, come tutta la popolazione dell’Altipiano, prestato fedeltà al dominio della Serenissima Repubblica Veneta, ed avendone goduto  in cambio dei privilegi, si sono trovati ad affrontare l’ostilità dei contadini-proprietari della pianura che non accettavano di buon grado i diritti di far pascolare le greggi nelle loro proprietà, anche se queste erano delle ‘poste’, cioè venivano date come aree di pascolo ai pastori stessi. Le ostilità tra pastori e proprietari di terre e titolari dei diritti delle poste hanno spesso determinato contrapposizioni, che hanno avuto tra gli effetti quello di rendere sempre meno trasparente la comunicazione tra i gruppi.
Il lessico dei pastori dell’Altipiano ebbe inizialmente come componente dominante il ‘cimbro’, cioè la lingua che veniva usata nella comunicazione quotidiana. A questo s'affiancò il prestito gergale legato sia alle relazioni comuni tra i vianti, sia specifico dei pastori. Valgano a questo proposito le numerose denominazioni per indicare l’asino, o quelle per designare le pecore tra le quali citiamo le due più oscure: còpane e galósse e anche parole come drèca ‘escrementi’ o fràissa ‘carne’. Nei loro spostamenti in pianura, i pastori venivano in contatto coi contadini veneti, dai quali assimilavano gli elementi dialettali indispensabili alla sopravvivenza. Successivamente, con il prolungarsi dei periodi passati in pianura e con lo stabilizzarsi delle relazioni con i proprietari di ‘poste’ e di terre, l’esposizione al dialetto veneto aumentò e crebbe l’uso del veneto tra i pastori. Anche i rapporti tra l’Altipiano e la pianura si andarono infittendo per la necessità di integrare la scarsa economia montana con lavori periodici nelle zone più ricche della Bassa. Man mano che le condizioni economiche migliorano, diminuì il numero di chi viveva ai margini, facendo i tradizionali mestieri dei vianti. Vennero quindi a diminuire l’ambito e la frequenza d’uso del gergo. Il lessico veneto alla fine divenne preponderante rispetto al ‘cimbro’, ma gli elementi ‘cimbri’ che avevano perso fortemente terreno anche sull’Altipiano sopravvissero invece tra i pastori con funzione gergale, mentre il gergo storicamente inteso si ridusse a poche unità residualiVediamo dunque che il cimbro assolve in questo caso almeno a due compiti, tra loro interrelati: l’identificazione del gruppo dei parlanti attraverso la lingua d’origine e l’intento criptolalico che permetteva di difendersi e di proteggersi da ingerenze indebite.
È significativo come prova di riconoscimento di appartenenza al gruppo che i pastori veneti (dell'Altopiano e feltrini, di Lamon) si chiamino tra loro non con il nome individuale, ma con un appellativo che li accomuna: bàjo (socio, compagno)  e baja è la  donna che esercita il mestiere  di aiuto-pastore,  sia  essa la  moglie,  la madre, la nuora o la cognata del pastore stesso. Soltanto fra i membri del gruppo si usa il patoà che è il gergo dei pastori, sinonimo di Sèrgo, e, per alcuni anche di sinbro “cimbro” lingua segreta dei pastori. Che la segretezza della loro parlata sia considerata un elemento determinante alla loro sopravvivenza lo dimostra il fatto che una delle formule più ricorrenti è un imperativo esortativo: (fa)baiche stil “zitto, fai silenzio”, perché qualcuno può sentirti. In realtà l’invito non è solo rivolto al bajo, ma è comprensivo anche di chi lo esplicita, nel senso che viene avvertita una situazione di pericolo a cui il parlante non è estraneo. La formula è un tedeschismo ridotto dai lamonesi a fa bastil. In lamonese: fa bastìl che l’à i pèten lónghi “fài attenzione che ha le unghie lunghe”, ma esser petenà è “esser scoperto”, quindi zitto che sennò sei scoperto”. La rivelazione ad estranei delle parole gergali era sentita come tradimento e fortemente stigmatizzata dai pastori stessiLa diversità del proprio gruppo rispetto a quello degli altri viene sottolineata anche dalla proliferazioni di nomi gergali o ‘cimbri’, con cui sono chiamati gli avversari, sui quali o si riversa lo spregio o, nel migliore dei casi, un’amara ironia.
I loro nemici tradizionali sono i contadini della pianura, siano essi grossi o piccoli proprietari terrieri, fattori o affittuari, tutte le forze dell’ordine, compresa la guardia civica (sibìco) e il guardia-argini, ma anche altre figure istituzionali, che per i cittadini sono considerate positive come il medico, il veterinario e il prete, anche questi sono fuori dal gruppo, perciò potenziali avversari, cui si ricorre solo in casi di estrema necessità. La ragione dell’opposizione sta nel fatto che il pastore si considera un marginale, la cui attività si attua spesso in modo abusivo sulle proprietà altrui, che gli animali possono danneggiare, perciò è costretto a far entrare le greggi di notte nei pascoli, per non essere visto, rimproverato, cacciato e, non di rado malmenato. Finisce quindi per trovarsi in una posizione di disagio che implica la non- accettazione di tutto ciò che rappresentano le cariche istituzionali, i cui funzionari hanno il compito di far rispettare la legge.
Un’ulteriore specializzazione linguistica che caratterizza il lessico dei pastori riguarda l’uso di tecnicismi inerenti al loro mestiere. Tali sono per esempio  i termini relativi ai segni di riconoscimento delle pecore quali l’incisione di un marchio fatto sull’orecchio chiamato sull'Altipiano: nóa o taca o tapa, che a sua volta poteva essere fatto a forcèla, a sète o in altri modi, mentre presso i lamonesi i principali tipi di nòva sono lo sgabiòl “segno triangolare, praticato lungo l’orlo anteriore o posteriore dell’orecchio e la forQèla “segno triangolare praticato sulla punta dell’orecchio”.
Si usano termini specialistici di origine neolatina o germanica per indicare le diverse età degli agnelli : agneléto o lamp è il piccolo della pecora e latarólo è quello che non viene  nutrito  dalla madre (che non produce latte sufficiente) ma da una capra, gabardo è l’agnello cresciuto di venti o trenta chili di peso, e, per quanto riguarda il periodo della nascita, tendraro è l’agnello nato in primaveraL’aia è il luogo di riposo delle pecore, da cui anche aiàre “condurre le pecore al riposo”, la smenà o pésta è il terreno che le pecore hanno già brucato,  con pochi rimasugli di erba e  quindi adatto a far rallentare la loro voracità di cibo, rispetto alla végra che invece è un terreno vergine, con abbondante pascolo.
Particolari denominazioni dialettali identificano popolarmente le razze delle pecore, per lo più indicanti la zona di provenienza: fodàta, bielese, modanese; massese, bergamasca o stciaóna, lamona. 
Evidentemente questo era un mestiere particolare, quasi per iniziati. Il pastore è un 'viante', un marginale, il suo problema è stato per secoli questo vivere borderline, tra legalità e illegalità, per scelta o per costrizione. Per questo troviamo molti sinonimi (germanici, veneti, a volte anche gergali) per le due figura antagoniste: la guardia e il contadino. Sicuramente da molto prima delle normative della Serenissima a proposito di poste, il tentativo era sempre stato quello di far pascolare le  pecore anche al di fuori di tempi stabiliti,  o  de  negro  o  de  naste 'o  di notte o di...notte', nei terreni dei pàor, dei pérle, dei birt, dei fére e dei gabúri (che da parte loro cercavano di impedire il pascolo alle pecore ‘montane’), sfuggendo al controllo dei cuc, dei pínter, dei sièrghe, degli sòinar e degli springar.
Fondamentale aiutante del lavoro del pastore, l'asino ci si presenta con troppi nomi: è l'ése (ted. esel 'asino'), ma è anche lo stròico, lo striòsso, il tràgaro, lo Súric, ‘lo zingaro’, 'il mago'.
Ancora sugli animali, anche nel caso del cane, l'animale-aiutante avrebbe due nomi, entrambi germanici di origine: funt e tírse.
I pastori dei 7C erano i più esposti  alla venetizzazione quindi alla perdita della lingua cimbra, trovandosi immersi per 8 mesi all’anno nel mondo venetofono. Tuttavia Foza, che era il comune maggiormente dedito alla pastorizia transumante, fu quello fra i paesi della parte orientale dell'Altopiano che  stranamente mantenne più pura e a lungo l'antica lingua. Questa stranezza credo sia ascrivibile alle donne, che in assenza dei mariti vianti trasmettevano alla prole la parlata tradizionale meno inquinata dai rapporti con il mondo circostante, tradizionalmente appannaggio degli uomini.

Rif: P. Mura e M.T. Vigolo, Dialetto, 'cimbro' e gergo dei pastori veneti: varietà linguistiche a contatto.
* Bisenàdego: Diritto concesso ai pastori dei 7C di pascolare il loro bestiame transumante nella pianura veneta (nelle "Poste") nella stagione autunnale-invernale di pausa dell’agricoltura.









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