In fondo al viottolo dell’uva, c’era un corso
d’acqua, un rio, che c’è ancora, e che separava, come le separa
adesso, le nostre proprietà in due zone distinte.
Un ponticello univa le due sponde, e attraversandolo si arrivava ai campi dell’altra parte che semplicemente venivano chiamati... “quelli dopo il rio”.
Era il posto che amavo di più. Erano i campi davanti dove nonno alla sera portava Argo, il nostro cane lupo, a correre libero, dove a febbraio si faceva il falò di carnevale, dove era posizionato un piccolo orto sotto il noce, perché il ruscello, garantiva acqua fino quasi a giugno.
Pieni, quei campi, di gelsi e di frescure di acacie rappresentavano per me una benedizione, un luogo incantato dove rifugiarmi in qualsiasi periodo dell’anno… e mi ci rifugiavo infatti, ci andavo anche quando d’inverno non c’eran più bimbetti, anzi era allora che mi gustavo di più quel posto.
Arrivavo in fondo in fondo fino al bosco a volte, oppure mi insinuavo in cima alla puntina del prato, in un campetto a triangolo, in un canneto che suonava giusto come le canne fanno al vento.
Mi ci infilavo dentro e ci stavo a ore, nascondendomi alla vista di tutti e perdendomi nei miei sogni e nelle fantasie che quei fruscii esaltavano.
C’era un senso avventuroso ad andare laggiù al rio da sola. Vicinissimo casa, ma lontanissimo come sensazioni, mi donava emozioni neanche fossi stata in chissà quale paese lontano che risvegliavano in me avventure che si rinnovavano in ogni stagione, e mi portavano via con la fantasia, mi portavano nei libri che leggevo, nelle fiabe che sapevo a memoria, di fate e gnomi e boschi incantati.
Il vento gelido di gennaio, il ghiaccio della brina sugli alberi, e poi man mano i fiori, la primavera, il verde dell’erba in maggio e giugno col suo giallo oro, tutto era una poesia che si ripeteva e si ripeteva... ottobre infuocato e poi dicembre e poi di nuovo gennaio e via e via, intanto che crescevo, cresceva in me la sensazione che anche il resto del mondo fosse così, ma di una cosa al momento non ero consapevole: di essere già in un luogo magico!
“ Come sarebbe bello, mi dicevo seduta sul ponticello, con le gambe nel vuoto, che ci fossero anche qui quei posti disegnati sui miei libri”... e mica mi accorgevo che in quei posti disegnati sui libri io ci stavo poggiata col sedere… che in quei posti da fiaba, da sogno, io ci correvo tutti i giorni, ne sentivo il profumo e mi ci sbucciavo le ginocchia cascando… mica mi rendevo conto che avevo un rio e un ponte tutto per me… e pure boschi intorno, e casine, e donnine e lumini alla sera che indicano la strada per tornare a casa.
Ne avevo sentore all’imbrunire, quando calano le ombre e la campagna assumeva un aspetto quasi notturno, allora mi sentivo immersa in un’atmosfera che mi impastava come impastava il pane nonna nella madia. Quando i rami degli alberi sembravano tentacoli protesi verso il cielo, quando in ogni ombra si nascondeva un mostro, quando arrivava il buio, ecco allora percepivo presenze al mio fianco che però, se erano come quelle descritte dai vecchi, erano paure, eran streghe, per quello di buio non si doveva star fuori, e allora correvo sù per il viottolo in un percorso contrario all’andata e raggiungevo casa, chiedendomi invece dove fossero le fate… e rimanevo incollata per un po’ col naso appiccicato al vetro per cercar di vederle… e loro, loro non si vedevano, ma erano là, là in fondo al rio, che saltavano, ridevano, coi i vestiti fluttuanti... bellissime eteree esattamente come quelle che scoprivo sui libri.
E poi ce n’era un’altra, ora lo so, meno bella, meno giovane, forse anche meno allegra di quelle giovincelle e vestita di scuro, e ce l’avevo in casa io. Nonna non aveva bisogno di tanti veli né di tanti fronzoli, ma una fata deve esser stata davvero per tirarmi grande, con una costanza e una forza che al contrario di altre più evanescenti, ho sempre realmente avuto al mio fianco, ma allora non avrei saputo descriverlo, sapevo solo che c’era, che su lei potevo fare affidamento anche quando in quelle sere dove la mia fantasia mi portava altrove, mi toglieva dal vetro chiudendo lo scurolo sul notturno che avanzava, dicendo...
Un ponticello univa le due sponde, e attraversandolo si arrivava ai campi dell’altra parte che semplicemente venivano chiamati... “quelli dopo il rio”.
Era il posto che amavo di più. Erano i campi davanti dove nonno alla sera portava Argo, il nostro cane lupo, a correre libero, dove a febbraio si faceva il falò di carnevale, dove era posizionato un piccolo orto sotto il noce, perché il ruscello, garantiva acqua fino quasi a giugno.
Pieni, quei campi, di gelsi e di frescure di acacie rappresentavano per me una benedizione, un luogo incantato dove rifugiarmi in qualsiasi periodo dell’anno… e mi ci rifugiavo infatti, ci andavo anche quando d’inverno non c’eran più bimbetti, anzi era allora che mi gustavo di più quel posto.
Arrivavo in fondo in fondo fino al bosco a volte, oppure mi insinuavo in cima alla puntina del prato, in un campetto a triangolo, in un canneto che suonava giusto come le canne fanno al vento.
Mi ci infilavo dentro e ci stavo a ore, nascondendomi alla vista di tutti e perdendomi nei miei sogni e nelle fantasie che quei fruscii esaltavano.
C’era un senso avventuroso ad andare laggiù al rio da sola. Vicinissimo casa, ma lontanissimo come sensazioni, mi donava emozioni neanche fossi stata in chissà quale paese lontano che risvegliavano in me avventure che si rinnovavano in ogni stagione, e mi portavano via con la fantasia, mi portavano nei libri che leggevo, nelle fiabe che sapevo a memoria, di fate e gnomi e boschi incantati.
Il vento gelido di gennaio, il ghiaccio della brina sugli alberi, e poi man mano i fiori, la primavera, il verde dell’erba in maggio e giugno col suo giallo oro, tutto era una poesia che si ripeteva e si ripeteva... ottobre infuocato e poi dicembre e poi di nuovo gennaio e via e via, intanto che crescevo, cresceva in me la sensazione che anche il resto del mondo fosse così, ma di una cosa al momento non ero consapevole: di essere già in un luogo magico!
“ Come sarebbe bello, mi dicevo seduta sul ponticello, con le gambe nel vuoto, che ci fossero anche qui quei posti disegnati sui miei libri”... e mica mi accorgevo che in quei posti disegnati sui libri io ci stavo poggiata col sedere… che in quei posti da fiaba, da sogno, io ci correvo tutti i giorni, ne sentivo il profumo e mi ci sbucciavo le ginocchia cascando… mica mi rendevo conto che avevo un rio e un ponte tutto per me… e pure boschi intorno, e casine, e donnine e lumini alla sera che indicano la strada per tornare a casa.
Ne avevo sentore all’imbrunire, quando calano le ombre e la campagna assumeva un aspetto quasi notturno, allora mi sentivo immersa in un’atmosfera che mi impastava come impastava il pane nonna nella madia. Quando i rami degli alberi sembravano tentacoli protesi verso il cielo, quando in ogni ombra si nascondeva un mostro, quando arrivava il buio, ecco allora percepivo presenze al mio fianco che però, se erano come quelle descritte dai vecchi, erano paure, eran streghe, per quello di buio non si doveva star fuori, e allora correvo sù per il viottolo in un percorso contrario all’andata e raggiungevo casa, chiedendomi invece dove fossero le fate… e rimanevo incollata per un po’ col naso appiccicato al vetro per cercar di vederle… e loro, loro non si vedevano, ma erano là, là in fondo al rio, che saltavano, ridevano, coi i vestiti fluttuanti... bellissime eteree esattamente come quelle che scoprivo sui libri.
E poi ce n’era un’altra, ora lo so, meno bella, meno giovane, forse anche meno allegra di quelle giovincelle e vestita di scuro, e ce l’avevo in casa io. Nonna non aveva bisogno di tanti veli né di tanti fronzoli, ma una fata deve esser stata davvero per tirarmi grande, con una costanza e una forza che al contrario di altre più evanescenti, ho sempre realmente avuto al mio fianco, ma allora non avrei saputo descriverlo, sapevo solo che c’era, che su lei potevo fare affidamento anche quando in quelle sere dove la mia fantasia mi portava altrove, mi toglieva dal vetro chiudendo lo scurolo sul notturno che avanzava, dicendo...
“Lascia fuori la notte con la sua
vita bimba... di buio si sta in casa”.
LE FATE DEL RUSCELLO di Dana Carmignani
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