martedì 18 aprile 2017

Il ramarro in cattedra

A proposito di lingaùri o ramarri, a dir che si voglia ... 
Pubblichiamo di seguito un interessante articolo di Luigi Stadera pubblicato nel 2005 sulla rivista varesina "Menta e Rosmarino".

<< Da qualche parte si vorrebbe inserire lo studio del dialetto e della tradizione nella scuola: problema complesso, che per di più rischia di sembrare un’opzione passatistica. 
Ora mi domando: un tempo, quando il mondo contadino era fiorente e il dialetto la lingua di tutti, dov’era la scuola?
Non devo chiedere lumi a nessuno, perché frequentai le elementari nella seconda metà degli anni Trenta e ne ho un ricordo vivissimo.
Bene. Quando entrai la prima volta in aula, le parole della maestra risuonarono pressoché incomprensibili; allora in italiano soltanto il curato faceva le sue prediche, che i ragazzi nemmeno ascoltavano. Fu un trauma e, a ripensarci oggi, un’assurdità: se i bambini parlavano soltanto il dialetto, dal dialetto si doveva partire, tanto più che il confronto avrebbe favorito l’apprendimento della stessa lingua nazionale. Invece l’insegnante non solo parlò subito in italiano, ma pretese che lo facessimo anche noi: lo facemmo, e ne vennero strafalcioni strabilianti, che provocarono la sua ilarità e raddoppiarono la nostra umiliazione; con tanti saluti alla psicologia.
La “indegnità” del dialetto e la sua estromissione confermavano da una parte l’impreparazione linguistica dei docenti e rientravano dall’altra in un progetto politico, volto retoricamente a “fare gli italiani” e in effetti a livellare e a controllare la società; assunto ribadito nei contenuti culturali dell’attività didattica.
Il sussidiario – Deus ex machina della nostra scuola è stato sempre il “sussidiario”, allora “libro di stato” esteso a tutta l’Italia e, più che un “sussidio”, la summa di un sapere obbligatorio. Lontanissimo dalla vita e dalla stessa cultura, non era in sostanza che un insieme di nozioni liofilizzate, piovute dallo spazio interstellare, senza nessuna eco negli alunni. Eppure, la lezione di Dewey e la pratica della “scuola attiva” da molti anni avevano mostrato la necessità di rifarsi all’ambiente locale, di muoversi nella concretezza dell’esperienza, di impegnarsi non nell’acquisizione passiva, ma nella ricostruzione attiva del dato culturale.

Se c’era una situazione favorevole a tale processo, era la nostra: il paese, le botteghe degli artigiani, il lavoro dei contadini, la pesca sul lago, la natura: un campo d’indagine vastissimo, intatto e a portata di mano. Ebbene, nulla; come se la scuola sorgesse nel deserto. L’insegnante era fissata con l’analisi grammaticale, non senza riscontri burlevoli; spiegava che i nomi sono concreti o astratti, a seconda che si possano o non si possano “vedere e toccare” (Signora maestra, il vento è concreto o astratto?); che sono di persona o di animale o di cosa (Signora maestra, il faggio è un animale o una cosa?). E avanti con i dettati, con le numerazioni, con le equivalenze; se andava male: “Scrivi cento volte: io sono un asino”.

L’ambiente – Gli animali del territorio, come se non esistessero; e così la vita di ogni giorno, le cose e i sentimenti, concreti o astratti che fossero. Non c’era posto per noi nella scuola; e i nostri sforzi, più o meno consapevoli, di introdurre il nostro mondo fra quelle pareti, sortivano l’effetto contrario. Le femmine portavano bellissimi mazzi di fiori campestri; i maschi si ingegnavano a far trovare, sulla cattedra o nel cassetto della cattedra, una talpa, una rana, una biscia, un ramarro, vivi o morti secondo le occasioni. Non solo le maestre non capivano, ma davano in strilli acutissimi e in escandescenze incontrollate; e se per caso usciva il colpevole: “Scrivi cento volte: io sono un delinquente”. Il delinquente scriveva e rimuginava sulla coccodrillesca – e incompresa – bellezza del ramarro.

Quando in un tema spuntò l’espressione “battere il frumento”, l'insegnante eccepì: “Ma che battere d’Egitto, si dice trebbiare!”; e giù, un frego rossoblù. Sarà meglio spiegarsi. Trebbiare viene dal latino tribulare, essendo il tribulum nell’antica Roma “un carro a ruote larghe e basse munite di denti di ferro, tirato sulle spighe per trebbiare il grano” (Georges); batterle con un bastone era ovviamente un metodo più arcaico. Rispetto alla trebbiatrice meccanica, entrambi i verbi sono dunque impropri, ma i tre sistemi emersi compendiano, per cosi dire, la storia del frumento, che sarebbe stato utile ripercorrere sul piano operativo e su quello linguistico. Ci saranno anche stati insegnanti che lo facevano e ce ne saranno anche adesso; peccato che la storia non si faccia con le eccezioni.

La tradizione oggi – Se quell’universo, chiamato oggi “tradizione”, non entrò nella scuola da vivo, sarà difficile che vi entri da morto, a dispetto di tutte le svenevolezze che fioriscono sul tempo degli antenati. Della tradizione si parla proprio come di un morto, del quale si dice ogni bene e si ricordano soltanto i tratti positivi; cioè in modo acritico, che è un po’ come seppellirlo un’altra volta, recitando magari una poesia in dialetto.
Un primo fattore concerne la domanda e un secondo l’offerta. La gente chiede davvero un ritorno della tradizione e del dialetto? E’ per lo meno sensibile a un tale ordine di questioni? La stragrande maggioranza, direi di no. E allora il problema si pone in termini culturali e più esattamente storici. Occuparsi oggi di tradizione significa riscoprire un mondo scomparso, metterne in chiaro le motivazioni, le implicazioni, le procedure. Con una difficoltà ulteriore, perché una storia orale non richiede soltanto la padronanza dei dialetti, ma di una metodologia di ricerca specifica, diversa da quella storica, tant’è vero che gli storici tendono a ignorare la tradizione. Come ha fatto la scuola, creando un vuoto difficilmente colmabile.
Una volta sarebbe stato facile integrare nella cultura scolastica la cultura della tradizione, ponendo oltre tutto rimedio alla vergognosa discriminazione delle classi subalterne. Ma oggi? Oggi non ci sono nemmeno più ramarri né pesci nel lago. E tuttavia non possiamo dimenticare il passato dal quale siamo venuti, a partire dalla vicenda locale che ha modellato la nostra identità profonda. Così, senza nascondere un sostanziale scetticismo, mi sento in dovere di riflettere su quello che si può fare, dalla scuola alla televisione (coinvolgere la TV non è come dirlo, ma sarebbe risolutivo: forse).
Gli insegnanti – Il secondo fattore investe i programmi e soprattutto i docenti: dico soprattutto perché abbozzare un piano di lavoro non è impossibile, ma gli insegnanti? Ahimè! Non parlano più il dialetto, non conoscono il mondo contadino né la storia locale (dispersa in mille rivoli), non sono preparati all’indagine sul campo né alla conseguente didattica. Non per colpa loro, è ovvio: raccogliamo i frutti (amari) di un lungo abbandono.
Ricuperare è un’impresa disperata. Si pensi al dialetto e alla necessità d’impararlo: già l’idea che si “insegni” una lingua orale sembra una contraddizione in termini. E poi, come? Alla stregua di una lingua straniera? Parlandolo? (con chi?). Per affrontare seriamente il problema, la via da seguire è quella scientifica: i candidati-insegnanti, che frequentano il biennio universitario di specializzazione, insieme all’italiano studiano i dialetti (sul piano glottologico), insieme alla storia la storia locale; e così via. Una scelta siffatta può sembrare artificiosa soltanto a chi non si rende conto che artificiosa è invece la divisione lingua-dialetti, storia-storia locale, ecc. 
In ultima analisi si tratterebbe di ricongiungere due parti di discipline concettualmente e storicamente unitarie, con indubbi vantaggi per entrambe. Sarà un libro dei sogni, ma non un requiem per il dialetto, anche perché non solo il dialetto è in gioco: la soppressione delle cattedre di italianistica in Svizzera e le difficoltà dell’italiano a Bruxelles sono segnali inquietanti. 
A un mondo che si globalizza sottraendo umanità all’uomo non si può non reagire; nelle tradizioni e nei dialetti delle mille patrie locali sono custoditi valori che non si possono perdere. Io faccio quello che posso; fra le altre cose ho in mente una campagna per la reintroduzione del ramarro nella scuola. >>

1 commento:

  1. Bela la foto de copertina, ciò...Desso ghe pensa el Don, tarè...

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