mercoledì 26 aprile 2017

I Viaggi di Marco Pollo: Lampedusa Africana

I geni ereditati da generazioni di emigranti almeno un lascito positivo devono avermelo trasmesso: la capacità di adattarmi ai paesi in cui mi trovo, sapendo che comunque una soluzione si arrangia e che l’ignoto inquieta solo finché non lo si conosce. Ciò non esclude che ci si possa cacciare in situazioni poco confortevoli, che magari spiriti più cauti eviterebbero a prescindere.

Oggi le traversate che vanno per la maggiore sono quelle dei migranti che sbarcano sulle nostre coste. Una traversata della speranza, decisamente più modesta, l’ho intrapresa anch’io, e proprio nei paesi d’origine di molti di quei profughi.

Mi trovavo infatti in Africa Occidentale per sondare i mercati dell’area ECOWAS, e m'ero ripromesso, già che c’ero, di visitare anche la Mauritania.  Per quest’ultimo paese però, mi occorreva un visto che non avevo fatto in tempo a procurarmi. Consapevole che in Africa le formalità si aggirano, mi ero attivato per trovare soluzioni alternative. Mi dicono infatti che una volta messo piede nel paese, avrei potuto negoziare un lasciapassare sul posto. Scartata a malincuore l’ipotesi di passare per la Langue de Barberia, oasi faunistica sull’oceano, opto per un attraversamento del fiume Senegal, molto più all’interno. 
I porti fluviali sul suo corso sono un caos di gente che va e viene, che pesca, che si lava, che bivacca, che aspetta l'occasione di attraversare. Qui sono le barche da pesca che effettuano il servizio di traghetto con l’altra sponda. Più che altro si tratta di sottili piroghe di legno dal fasciame inchiodato alla bell’è meglio e con dei ponti traversi a fungere da sedute. Non avendo alternative, negozio l’attraversamento con il proprietario del mezzo che mi pare meno malmesso e salgo sedendomi sul bordo. Pensavo ingenuamente che il nolo, ancorché economico, fosse una mia esclusiva, invece mi ritrovo a veder salire sul mio naviglio una processione di persone. Alla fine saranno una quindicina quelli che si accomodano via via sul legno, con tutta una serie di strafanti al seguito, facendolo dondolare come una giostra, col mio più vivo disappunto.
Soddisfatto del carico, l’audace capitano avvia il motore arrotolando un pezzo di corda. Il propulsore è un aggeggio bolso e fumante, che ai suoi tempi belli aveva servito in aeronautica. La barca prende il largo attraversando il fiume, che in questo tratto sarà largo più d’un chilometro, con un corso pigro e limaccioso. Il natante oscilla paurosamente sotto l’incerta spinta dell’elica, mentre io ascolto con rassegnazione gemere i chiodi arrugginiti che tengono insieme il fasciame, evidentemente riciclati dalla demolizione di qualche pallet. Con mio grande sollievo sbarco finalmente sulla sponda mauritana; ormai è mattina inoltrata e il sole picchia duro. L’approdo è un nudo lastrone di cemento bordato da alcuni locali adibiti a vari usi.

Ovviamente un unico salame bianco in occhiali da sole non può passare inosservato in mezzo a quella variegata umanità dalla pelle scura, per cui vengo di lì a poco avvicinato da un sorpreso e sudaticcio gendarme che, ovviamente, mi chiede i documenti.
Sfoglia curioso il passaporto, non so se alla ricerca del visto mauritano fra i numerosi altri colorati che lo corredano, o perché non ne ha mai visto uno di quel tipo. Il visto giusto non c'è, ma spiego che sono disponibile a pagare il dovuto per ottenerne uno lì al momento. Il militare mi chiede cosa faccio, dove vado, perché mi trovo lì, ecc. Domande peraltro legittime, per carità; infatti mi sto chiedendo anch’io cosa ci faccio lì.  Quindi chiama il suo superiore, al quale ripeto le medesime cose. Mi dice che questa prassi non è prevista, ma intanto s’informa prudentemente di quanti soldi mi porto appresso, quindi scompare nella guardiola con il mio passaporto. Ci saranno 40 gradi e neanche un refolo o straccio d’ombra, sto letteralmente colando, mentre aspetto fiduciosamente che si compia il mio destino. Compro qualche frutto e nell’estenuante attesa esploro la variegata umanità che transita per questo approdo. 
Da questo valico passano molti di coloro che tentano l’emigrazione clandestina in Europa attraverso il corridoio occidentale. Puntano all’insidioso braccio di mare che divide il Saharawi dalle Canarie, dove in troppi sono naufragati tentando la traversata su barchette da pesca appena adatte al piccolo cabotaggio, o più oltre, verso i muri di Ceuta, altrettanto poco ospitali. Gli spagnoli, per quanto ne so, non li vanno a prendere per strada, per cui probabilmente saranno poi costretti a dirigersi verso la nostra più accogliente Lampedusa.
Adesso mi trovo anch’io nella loro stessa barca, per così dire, pur con l’ovvia sproporzione in quanto a prospettive e scopi. Nei loro occhi ci dev’essere la stessa rassegnata speranza che illuminava quello dei nostri emigranti sui piroscafi verso l’Argentina o gli States e poi l’Australia. Ma anche sui treni per la Francia, il Belgio e la Svizzera, ecc.; storia che non mi è nuova.
Finalmente esce un altro, con un baffo in più sulla manica e più imperioso, al quale devo recitare la stessa solfa.  Secondo lui il visto non si può fare: devo assolutamente imbarcarmi per l’altra sponda; mi riconsegna il passaporto lasciandomi alla custodia del primo gendarme e rientra nella casupola.
Eh, no ciò, non ci sto! Lo inseguo all’interno dell’ufficio e mi produco in una patetica perorazione della loro misericordia. La cosa sembra stia dando frutti, dato che confabulano fitto fitto fra loro in wolof, abbandonando il francese; intanto io aspetto. In Africa aspettare è l’occupazione più ricorrente; i wolof inoltre, in fatto di chiacchiere, non sono secondi a nessuno.
Ecco che si profila una bozza di accordo: pagando una cifra, che fatalità corrisponde a quanto avevo dichiarato di possedere, posso restare in quel tratto rivierasco, ma non proseguire verso l’interno; le procedure d’immigrazione non lo permettono e loro devono rispettare rigorosamente la legge. Giusto!
ma io quel territorio avevo già avuto modo di esplorarlo centimetro per centimetro durante l’estenuante attesa e ormai la Mauritania mi è andata, se così si più dire, giù dal carro; soprattutto non ho nessuna intenzione di dargliela per vinta. Inoltre sono stufo, ho fame e mi sono anche scocciato. Li lascio quindi alle loro confabulazioni e mi dirigo svelto al molo, dove mi reimbarco frettolosamente su una piroga ancor più malmessa dell’andata e faccio ritorno a dove sono venuto.

Gianni Spagnolo

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