giovedì 27 aprile 2017

I Viaggi di Marco Pollo: Il grande sacrificio

Le nostre esperienze di vita hanno ormai perso ogni riferimento alla civiltà agro-pastorale da cui pure proveniamo e ai suoi riti, rimanendo questa evocata soltanto dalla religione e dai suoi simboli e tradizioni. 
Quand’ero bambino, uno degli eventi topici era la supervisione della macellazione delle bestie da parte dei due becàri allora attivi in paese: i Nicola e i Mori. La notizia che qualche toro o vacca comparisse legato a uno dei due stazionamenti deputati allo scopo, cioè nella corte dei Badùni, all’anello fissato alla parete del macello dei Nicola, o all’inizio della salita delle Giare, per quello dei Mori, attivava tutta la tépa in circolazione, che accorreva immediatamente a valutare l’animale, nonché a molestarlo.
Io ero stato preso a benvolere dal vecchio Toni Nicola, che mi lasciava accompagnarlo nel prelievo del bestiame nei paesi intorno e sugli Altopiani, nella loro cura, ma soprattutto assistere alla macellazione degli animali.
Non che fosse una novità: copàre animali da cortile, conigli e far sù maiali allora era prassi comune in ogni casa, e senza particolari ansie metafisiche.
Nei confronti di questa pratica non ho perciò quella schifata repulsione che oggi è sentimento prevalente; anche se sono quasi vegetariano: non già per ragioni filosofiche o per essere cool, ma più prosaicamente perché mi piace poco la carne. 
A quel tempo la morte, degli animali come degli uomini, era esperienza di vita, non evento relegato a non-luoghi e a non-pensieri come oggi.

Queste ricordi mi sono tornati alla mente trovandomi ad assistere ad uno dei riti più importanti per i fedeli musulmani: l’Aid-el-Kebir, meglio noto nell’Africa Occidentale con l’espressione berbera di Tabaski, dove l’evento focale è il sacrificio rituale di un montone. La sua data è fissata secondo il calendario lunare e di conseguenza la certezza del giorno si ha solo con poco anticipo o addirittura il giorno prima, quando le guide religiose informano la popolazione dopo aver consultato il cielo.
Qualche anno fa mi trovavo infatti in Senegal, a Pikine, popoloso satellite della capitale Dakar, ospite di una famiglia del luogo e proprio in occasione di questa festa, che scatena nel mondo musulmano una follia consumistica paragonabile a quella del nostro Natale. Una miriade di montoni, pronti per essere sacrificati, invadono le vie delle città, mentre intorno impazza la corsa per il loro acquisto e per i preparativi della festa.

Il sacrificio dell'ariete vuole ricordare il gesto di Abramo, cui Dio aveva ordinato di immolare il figlio per verificarne la fedeltà. All’ultimo momento però, Dio dispose la sostituzione del fanciullo con un montone apparso misteriosamente allo scopo. 
Rappresenta dunque la celebrazione della fede, della totale sottomissione a Dio, cardine dell'Islam. Costituisce l’archetipo anche per noi cristiani, che celebriamo, come culmine delle nostre feste, il momento in cui Dio lasciò invece immolare il suo Figlio per la rinnovata alleanza.
Per questo, secondo la tradizione islamica, ogni uomo maggiorenne, se ne ha i mezzi, deve provvedere all’acquisto di almeno un montone maschio. Se però non se ne ha la possibilità finanziaria, potrà sacrificare una pecora, altrimenti una capra, una vacca o, infine, un pollo, ma in tal caso è una vergogna e nessuno vorrà mai scendere a questo livello, a costo di indebitarsi fino al collo.
Per passare la festa con la propria famiglia, i senegalesi rientrano nei villaggi d’origine, svuotando la città per la gioia di tassisti e autisti.  Per l’occasione gli uomini si fanno fare dal sarto un vestito nuovo. La follia consumistica coinvolge soprattutto l’universo femminile: ogni padre di famiglia deve infatti assicurare, oltre all’acquisto dei capi di bestiame, agli ingredienti per la cucina e al proprio bubu (la tradizionale tunica locale) anche quello dell’abito, dell’acconciatura, delle scarpe e quant’altro per moglie e figli; e le famiglie sono spesso più d’una, vigendo la poligamia.

A vendere gli arieti sono i pastori fulani che raggiungono la capitale con i loro greggi, ma anche i cittadini stessi che, per guadagnare qualche soldo in poco tempo, si recano nelle aree rurali per acquistare un certo numero di capi di bestiame e tornare a rivenderli nella capitale trasportandoli in ogni modo tecnicamente possibile: dentro in macchina, sopra il tetto, nei sacchi, al guinzaglio, a spalle, ecc., secondo diponibilità ed inventiva.
 La giornata inizia con la preghiera delle due rakkas (genuflessioni). Uomini e bambini, ben abbigliati nei loro bubu colorati e con il tappetino della preghiera in mano, accorrono nelle varie moschee della zona. Una volta rientrati in casa, eseguiranno il rito centrale della Tabaski. Di fronte ad ogni casa, un gruppetto di uomini si dispone intorno a un montone bloccato a terra da un altro paio. Il padre di famiglia o il figlio maggiore bisbiglia «Bismillahi, Allahou Akbar », (In nome di Dio, Dio è grande) e poi affonda la lama nella gola dell’animale, con un movimento rituale semicircolare che recide la carotide insieme ai  legamenti del collo, prima uno e dopo l'altro. Per chi non se la sentisse di farlo, ci sono gli anziani del quartiere che si prestano alla bisogna. Una volta che il sangue è totalmente colato nella buca sottostante scavata appositamente, l’animale viene lavato e trasportato in casa. 
Ora, mentre le donne iniziano a preparare le verdure con cui verrà preparato il montone, tutti gli uomini della casa partecipano a scuoiarlo e macellarlo. Finita l’operazione, si prendono alcuni pezzi di carne e la si porta ai vicini, che ricambieranno il gesto, in un susseguirsi infinito di: Assalamu aleikum / Aleikum salam. 
A questo punto, alcune donne procedono alla preparazione del pranzo, mentre altre si dedicano a grigliare alcuni pezzetti di fegato da degustare subito, come vuole la tradizione. Una volta pronto il pranzo, tutta la famiglia si riunisce intorno a due grandi piatti, una per le donne e l’altra per gli uomini, e si consuma il pasto, ben contenti di mangiare tanta carne almeno una volta all’anno. Il pranzo continuerà per tutta la giornata, essendo quasi obbligati a mangiare in ogni casa in cui si entra.
Questa è grossomodo la tradizione, a cui mi sono assoggettato anch’io in quanto ospite di quella famiglia allargata. Allo scopo sono stato pure provvisto di un bubu nuovo fiammante, confezionatomi espressamente dalla sorella del mio ospite la sera prima.
Per le dimensioni della famiglia si è dovuto procedere al sacrificio di ben 3 bestie, che fino al giorno prima erano legate fuori alle sbarre delle finestre, così come gli altri circa ottocentomila animali presenti in città, con effetti spesso esilaranti per uno straniero. Fortunatamente qui le strade sono quasi tutte sterrate e costituite da sabbia sottile, perciò scavare una buca per colare il sangue e poi seppellirvi le interiora, è impresa agevole.
Per lo sgozzamento rituale però, un po’ di mano ci vuole, per non rischiare di imbrattarsi il bubu, come appunto è successo al sottoscritto.
Per chi si ricorda, un animale sgozzato può continuare a scalciare per ancora un pezzo per le contrazioni muscolari, per cui è buona norma lasciare la carcassa rilassarsi prima di procedere alla lavorazione.
Come dicevo sopra, non mi piace la carne e quindi mi sono accontentato del pezzetto di fegato come aperitivo, piluccando poi qua e là dall’immenso piatto degli uomini che ho condiviso nella casa accovacciato a terra in bubu e a piedi nudi. Quindi la giornata è proseguita in un continuo andirivieni di parenti e amici col corollario delle inevitabili logorroiche chiacchiere e salemelecchi, che fra i wolof, sono il must imprescindibile di ogni incontro.

Questi prescrizioni rituali valgono ovviamente anche per gli immigrati di religione musulmana che abitano da noi, che per adempierle devono trovare difficili compromessi con le nostre regole. Va da sé che il nostro sistema di vita non è più disposto ad accettare comportamenti che non siano assolutamente asettici, antibatterici, animalisti, panteisti, ecc. Politicamente corretti, insomma.
D'altra parte qualche problema igienico queste pratiche lo pongono. Finché ci sono strade sterrate dove scavare buche e modalità di vita essenziali, la cosa è gestibile. Un tantino più problematico sarebbe dalle nostre parti, in caso di conversione o immigrazione massiccia.  Magari torneremo a vedere le bestie ala stciona fuori dalle case e l'Astico come il lago di Tovel ai tempi belli. 
Giusto l'anno scorso mi trovavo proprio in Bangladesh, altro paese musulmano ma stavolta asiatico, dove il sacrificio si fa prevalentemente con le mucche, invece che con gli arieti. Il problema è che in una città come Dhaka, caoticissimo agglomerato dai venti e più milioni d'abitanti e sprovvisto di adeguati sistemi di drenaggio, l'evento ha coinciso con la stagione monsonica, trasformando la città in un maleodorante lago di sangue. Li probabilmente, dato anche il clima tropicale, i batteri si muovevano nelle acque grossi come balene. Per fortuna che non si vedevano, perché, si sa, i batteri sono invisibili, e allora noi ce ne facciamo un baffo. 

Gianni Spagnolo  XXII-IV-MMXVII

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